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Ecco perché lo studio su vaping e ictus non è attendibile

Una ricerca texana ha rilevato che il vapore causerebbe più ictus del fumo di sigaretta. Il professor Michael Siegel contesta i risultati e spiega perché lo studio non è attendibile.

Chi è abituato a dare uno sguardo ai giornali stranieri, probabilmente nei giorni scorsi ha fatto un salto sulla sedia. La sigaretta elettronica aumenta il rischio di ictus più del fumo, titolavano moltissimi siti e testate con la tipica mancanza di prudenza riservata all’argomento vaping. La “notizia” veniva da uno studio preliminare condotto su topolini da laboratorio dall’assistente di ricerca Ali Ehsan della Texas Tech University e presentato durante la conferenza internazionale della American Heart Association.
Vista la sede prestigiosa della presentazione, c’è quindi poco da meravigliarsi della risonanza avuta dallo studio. Il problema delle ricerche e delle notizie scientifiche in generale, è che vengono quasi sempre riportate da giornalisti che, ovviamente, non hanno studiato medicina e non hanno mezzi per giudicare la validità di uno studio. Il cronista non può che limitarsi a riportare quanto dicono scienziati, pensando – quasi sempre in buonafede – che questi ne sanno certamente più di lui.
Noi non facciamo certo eccezione e per questo ci affidiamo ai commenti del professor Michael Siegel della Boston University, più che titolato a giudicare l’affidabilità di questo studio che lancia un allarme da non sottovalutare. E la prima cosa che il professore americano fa notare è che lo studio di Ehsan non è stato ancora pubblicato né sottoposto alla prova del “peer-rewieving”. Cioè non ha subito alcuna valutazione dalla comunità scientifica per stabilire se ha rispettato procedure, standard e protocolli universalmente riconosciuti. Insomma, nessuno garantisce l’attendibilità di questo lavoro. Traslare poi i risultati di un unico studio preclinico dai topi agli esseri umani è, secondo Siegel, “ridicolo”.
Il professore cita la pubblicazione in materia dei neurologi tedeschi Stefan Braeuninger e Cristoph Klienschnitz: “Esistono significative differenze fisiologiche, neuroanatomiche e metaboliche fra gli esseri umani e i piccoli roditori. Per esempio, i piccoli roditori solitamente hanno bisogno di maggiori dosi di medicinali su una base di mg per chilo di peso corporeo per avere un effetto rispetto ai grandi mammiferi. Quindi la dose efficace ricavata da studi preclinici sull’ictus nei piccoli roditori non si può semplicemente trasferire agli uomini, nemmeno adeguandola alla massa corporea”.
E che gli studi fatti sugli animali non siano automaticamente trasferibili all’uomo sono in molti a sostenerlo. Sul numero 4 del 2010 della rivista bimestrale Charta Minuta la biologa Michela Kuan scriveva: “La sperimentazione animale ha comportato, e continua farlo, grandi errori e ritardi nella scienza, diventando la quarta causa di morte negli Stati Uniti per reazioni avverse ai farmaci non individuate durante la sperimentazione pre-clinica sull’animale; inoltre solo l’8% dei farmaci passa la fase clinica sull’uomo, con un indice di insuccesso altissimo”.
Sempre secondo Kuan la scarsa affidabilità di questi test è dovuta non solo alle differenze fra l’uomo e l’animale, ma anche alle condizioni delle cavie da laboratorio: “Gli animali mantenuti in cattività nei laboratori mostrano chiari segni di stress psicologico, fisiologico e comportamentale, predisponendo il corpo dell’animale all’insorgenza di patologie che si traducono in variabili non deducibili nei risultati sperimentali”. Dubbi simili esprimeva nello stesso numero della rivista anche il professore Umberto Veronesi.
Insomma, spiega Siegel, l’American Hearth Association non ha giustificazioni scientifiche per diffondere la notizia che il vaping causa l’ictus, men che meno per sostenere che lo faccia più del fumo e parla di “negligenza in campo di salute pubblica”. Milioni di fumatori che pensavano di passare all’ecig, potrebbero essere scoraggiati da queste notizie. “Non è solo un modo di fare non scientifico – scrive – è anche dannoso per la salute pubblica”. E noi non potremmo dirlo meglio.

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