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(Ri)pensare una nuova alleanza tra Stato e vaping

È comprensibile che gli operatori, sentendosi minacciati da un fisco avverso, pensino che sia meglio stare "coperti". Ma alla lunga è una strategia controproducente. Attorno al vaping e alla sua tassazione si combatte una battaglia non solo lobbistica, ma culturale e di opinione che va affrontata a viso aperto.

(tratto da Sigmagazine Bimestrale, luglio-agosto 2017)

senatore, sottosegretario per gli Affari Esteri

Decenni di militanza antiproibizionista mi hanno insegnato a guardare ai problemi legati al consumo di droga in modo laico, con senso di responsabilità per le conseguenze che le decisioni politiche comportano sulla vita dei cittadini – e non solo dei consumatori – e con una marcata diffidenza per l’effetto taumaturgico dei divieti.
Rispetto al fumo non ho mai pensato che strategie proibizionistiche dal punto di vista giuridico o terroristiche dal punto di vista psicologico potessero sortire effetti miracolosi. Anche per le droghe legali, che, proprio a partire dal tabacco, ammazzano molto di più di quelle illegali, ho sempre pensato che occorresse partire da politiche miranti alla riduzione del danno. Non perché non ritenga auspicabile che nel giro di pochi anni gli 11,5 milioni di fumatori italiani smettano tutti di fumare o i 4 milioni di consumatori di cannabis abbandonino questa abitudine poco salutare, ma perché so che è sbagliato condizionare a un obiettivo manifestamente irrealizzabile un complesso di politiche di educazione e intervento sanitario, che devono invece porsi fini concretamente perseguibili e ragionevolmente raggiungibili, con le risorse – per definizione scarse – che sono a disposizione.
Il Professor Veronesi, che non casualmente, partendo dai medesimi presupposti, era a favore della legalizzazione della cannabis, non si è stancato di ripetere fino agli ultimi giorni della sua vita che il vaping rappresenta in primo luogo una alternativa terapeutica per i tabagisti, cioè un modo per consentire l’assunzione di nicotina a tutti i fumatori – sono l’assoluta maggioranza – che non vogliono o non riescono a “smettere”, senza tutti i danni connessi alla combustione del tabacco.
Anche le critiche circa i rischi del fumo elettronico – quali quelli adombrati dal Ministro Lorenzin in alcuni interventi parlamentari e rilanciati recentemente da una ricerca dell’Università di Bologna sull’esposizione ai vapori di ratti in laboratorio – vanno affrontati e discussi laicamente. È normale ed è doveroso che la ricerca si muova anche in questa direzione, ma è altrettanto doveroso che la valutazione dei decisori pubblici si basi su criteri di valutazione del rischio ragionevoli e che il giudizio sui rischi potenziali (e spesso solo ipotizzati) delle ecig sia comparato a quello sui danni accertati del fumo tradizionale. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, chi fuma sigarette elettroniche è un fumatore o ex fumatore di sigarette e il rischio che va comparato è quello tra il consumo delle une e delle altre, non tra il consumo e il non consumo. E sulla base delle conoscenze disponibili, questo raffronto non lascia adito ad alcun dubbio su quale sia il rischio peggiore.
Quando all’inizio di questo decennio hanno iniziato ad aprire in tutte le città e in molti piccoli centri centinaia di rivendite di sigarette elettroniche, pochi ebbero la consapevolezza che questo nuovo mercato e questi nuovi e “strani” prodotti potessero offrire il più grande contributo oggi disponibile in tutto il mondo per la riduzione dei danni da fumo. Da molti punti di vista, il primo a non rendersene conto fu proprio il legislatore che, a partire dal 2014, stabilì un’imposta di consumo monstre, pari al 58,5 per cento, non solo sui liquidi contenenti nicotina, ma anche sugli stessi dispositivi elettronici.
Di lì iniziò un contenzioso, che ha già visto lo Stato soccombere una volta davanti alla Corte Costituzionale, che purtroppo è ancora lontano dalla conclusione e che vede tuttora questi prodotti assoggettati a un’imposta di consumo di circa 4,5 euro per 10ml di liquido da inalazione. Come ben sanno tutti gli operatori del settore, avendolo sperimentato sulla propria pelle, questa pressione fiscale zavorra in modo insopportabile il dinamismo di un mercato che è tornato a crescere in modo molto marcato, ma che rischia di vedere danneggiati proprio i produttori italiani e di essere inquinato da volumi crescenti di “sommerso”.
Io penso che sarebbe auspicabile e anche possibile un diverso rapporto tra lo Stato e il mercato del vaping, tenendo presenti, a un tempo, esigenze di gettito, interesse allo sviluppo di un settore che, fin dai suoi inizi, aveva un connotato fortemente Made in Italy e obiettivi di politica sanitaria.
Partiamo da questi ultimi. Nel 2016 l’Istituto superiore di sanità ha stimato circa due milioni di vaper, la maggioranza dei quali rimangono consumatori duali, cioè continuano anche a fumare tabacco, ma in misura inferiore. Circa un vaper su 5, invece, non fuma sigarette, sigari o pipa e si limita a svapare. È difficile stimare il risparmio finanziario legato alla minore incidenza delle patologie da fumo, derivante da questa modifica delle abitudini di consumo, ma si tratta di dati molto importanti, che andrebbero consolidati ed estesi, fino a raggiungere rapidamente il benchmark inglese dove i vaper sono 3 milioni e uno su due ha definitivamente abbandonato le “bionde”.
Dal punto di vista del gettito, la “persecuzione fiscale” delle sigarette elettroniche non ha sortito alcun effetto: pochissimi milioni di euro, cinque nel 2015; non è ancora stimato il dato 2016, ma non penso sia di molto superiore. Dall’altra parte, gli 11,5 milioni di fumatori italiani garantiscono all’erario tra accise e Iva sui tabacchi lavorati circa 14 miliardi di euro l’anno.
In una logica di medio-lungo periodo, si può immaginare che una parte del gettito legato oggi alle sigarette ricada sulle ecig, ma è necessario prima riuscire a diffondere la cultura del vaping come alternativa più virtuosa al fumo del tabacco, anche con forme di incentivo fiscale. Schiacciare le sigarette elettroniche per preservare il gettito da tabacchi lavorati nel medio lungo periodo è economicamente svantaggioso, anche perché danneggia lo sviluppo di un settore che potrebbe produrre non solo salute, ma reddito e posti di lavoro e quindi ulteriore gettito, in misura più significativa e continua di quanto avviene oggi.
Ma per giungere a questo risultato, a una diversa “alleanza” tra lo Stato e il mondo del fumo elettronico è necessario che non solo si diffondano i dati, molto incoraggianti, degli effetti positivi che sul piano sanitario sono legati alla diffusione delle ecig. È necessario che divenga anche evidente, davvero pubblica e possibilmente pubblicizzata, la realtà economica di questo settore. Oggi disponiamo dei dati abbastanza precisi sul numero dei vaper e sulle loro abitudini di consumo, ma né l’opinione pubblica, né i decisori politici sanno molto di quante siano le imprese, i fatturati e gli addetti di questo mercato in Italia.

Mosè Giacomello (presidente Vapitaly) e Carmelo Palma (direttore Strade)

Questo fu evidente quando nell’ottobre scorso la rivista Strade in collaborazione con Vapitaly organizzò a Roma un workshop con una dozzina di parlamentari nazionali, molto interessati allo sviluppo del settore, ma del tutto privi di conoscenze e di riferimenti sulla sua complessiva dimensione economica.
È comprensibile che gli operatori, sentendosi minacciati da un fisco avverso, pensino che sia meglio stare “coperti”. Ma alla lunga, come ho sostenuto intervenendo davanti a una platea di aziende nell’ultima edizione del Vapitaly a Verona, questa è una strategia controproducente. Attorno al vaping e alla sua tassazione si combatte una battaglia non solo lobbistica, ma culturale e di opinione che va affrontata a viso aperto.