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Sigarette elettroniche e pubblicità: regole, divieti, opportunità

L'avvocato Alberto Gava ci guida nel labirintico percorso normativo che regolamenta le comunicazioni commerciali del settore del vaping. Articolo tratto da Sigmagazine #3 luglio-agosto 2017.

tratto da Sigmagazine #3 luglio-agosto 2017

Il Decreto legislativo 6/2016 ha recepito la Direttiva 2014/40/UE con il chiaro intento di dettare una complessiva disciplina del settore fumo elettronico. Tra gli obiettivi della norma vi era quello di fare maggiore chiarezza sulle forme di pubblicità, ammesse e non, dei prodotti del settore (art. 21), prima oggetto di attenzione della sola Legge Sirchia (L. 3/2003). Obiettivo che, tuttavia, non è stato adeguatamente raggiunto, al punto che, ad un anno dall’adozione del testo di legge, tanto rimane ancora da fare perché gli operatori del settore possano avere piena e certa cognizione di ciò che è lecito e di ciò che, al contrario, non lo è. Giacché, quindi, l’incertezza regna ancora sovrana, il presente breve articolo, senza alcuna pretesa di esaustività, ha l’obiettivo di fornire alcune linee guida agli operatori del settore che hanno necessità di comprendere quali siano i divieti vigenti e quali gli spazi di manovra residui per l’attività di promozione dei loro prodotti.
Dato certo e preliminare è che il decreto legislativo di attuazione della direttiva europea si applica, secondo il combinato disposto di cui agli articoli 2 e 21, alle sigarette elettroniche (per tale intendendosi il “prodotto utilizzabile per il consumo di vapore contenente nicotina tramite un bocchino o qualsiasi componente di tale prodotto, compresi una cartuccia, un serbatoio e il dispositivo privo di cartuccia o di serbatoio”) e ai contenitori di liquido di ricarica contenenti nicotina, mentre non si applica ai prodotti immessi in mercato come medicinali o dispositivi medici (rectius soggetti all’obbligo di autorizzazione ai sensi del d.lgs. 24 aprile 2006, n. 219 – Codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano – o ai requisiti prescritti dal d.lgs. 24 febbraio 1997, n. 46, concernente i dispositivi medici).
Sono dunque ictu oculi esclusi dall’ambito di applicazione della norma e, conseguentemente, dai divieti che la stessa impone (purché non si incorra nel divieto di pubblicità indiretta su cui vedi infra) i liquidi non contenenti nicotina, nonché i dispositivi usa e getta precaricati con liquidi non nicotinici. Non sembrano al contrario esclusi dal divieto i device aperti che, stante la definizione di sigaretta elettronica (sopra richiamata) sono comunque “utilizzabili” per il consumo di liquidi nicotinici e, dunque, appaiono interessati dalle previsioni normative in discussione.
Ciò premesso, venendo alle previsioni specifiche del Decreto legislativo 6/2016 (mutuate testualmente dalla Direttiva 2014/40/UE), l’articolo 21, comma 10 vieta espressamente, nella misura in cui abbiano lo scopo o l’effetto (diretto o indiretto) di promuovere le sigarette elettroniche e i contenitori di liquido di ricarica: (i) le comunicazioni commerciali nei servizi della società dell’informazione, sulla stampa e altre pubblicazioni stampate o via radio; (ii) qualunque forma di contributo pubblico o privato a programmi radiofonici; (iii) qualunque forma di contributo pubblico o privato a eventi, attività o persone singole e a cui partecipino o che si svolgano in vari Stati membri o che comunque abbiano ripercussioni transfrontaliere; (iv) le comunicazioni commerciali audiovisive cui si applica la direttiva 2010/13/UE (sui servizi di media audiovisivi).
Non sembra necessario, in questa sede, soffermarsi sulla previsione normativa del divieto di comunicazioni commerciali televisive (questo invero assoluto) e via radio, che appare chiara ed esaustiva. Al contrario, è di estremo interesse comprendere cosa intenda il legislatore nell’estendere il divieto alle comunicazioni commerciali effettuate (i) nei servizi della società dell’informazione; (ii) sulla stampa e altre pubblicazioni stampate. Con l’avvertimento che l’analisi qui proposta non può che accogliere un’interpretazione prudenziale volta a non esporre gli operatori a rischi di sorta e che, ad ogni modo, ciascuna idea pubblicitaria deve essere attentamente e specificamente vagliata quanto a conformità normativa.
Partendo dall’ultima previsione citata, si può validamente sostenere che con l’espressione stampa e altre pubblicazioni stampate, il legislatore voglia riferirsi, da un lato a “tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione” (Cfr. Disposizioni sulla stampa di cui alla l. n. 47/1948); dall’altro, più in generale, alle testate giornalistiche telematiche, nonché a qualsivoglia materiale stampato che possa veicolare un messaggio (cartellonistica, compresa quella apposta su automezzi pubblici e privati, teloni a copertura di edifici per opere di rifacimento, flyers, cartoline, calendari, buoni sconto, cataloghi, eccetera). Venendo, invece, al divieto di “comunicazioni commerciali nei servizi della società dell’informazione” l’esegesi della norma appare più complessa. In particolare, con servizi della società dell’informazione, la normativa vigente individua qualsiasi attività economica online nonché qualsiasi servizio prestato dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario (Cfr. L. 317/1986 e D.lgs. 70/2003).
Ora, se non è complesso comprendere cosa effettivamente sia una attività economica online, definizione ampia che può ricomprendere, ad esempio, la vendita online di merci, l’offerta online di informazioni o di comunicazioni commerciali, più difficile appare la compiuta comprensione di quali siano gli ulteriori “servizi” della società dell’informazione (cioè quelli prestati dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario) e se, per gli stessi, vi sia un residuo spazio di autonomia, oppure siano, da ultimo, anch’essi riconducibili alla più ampia definizione di attività economica online. Ai nostri fini, tuttavia, tralasciando esercizi definitori, ciò che appare più utile è comprendere cosa non sia effettivamente riconducibile a tali “ulteriori” servizi della società dell’informazione.
Ebbene, partendo dal dato letterale della norma possono considerarsi estranei alla definizione di “servizio della società dell’informazione” fornita dalla Legge 317/1986 (come modificata dal D.lgs. 427/2000) quei servizi prestati a distanza e per via elettronica nei quali, tuttavia, manchi il requisito dell’esser prestati a fronte di un pagamento o dell’essere fruibili a fronte di una richiesta individuale. Ragionando in questi termini, primi tra tutti vengono in mente i servizi liberi (così escludendo i servizi di advertising a pagamento) offerti dalle piattaforme web quali Facebook o Youtube, ma anche Instagram, Pinterest, eccetera. Servizi che consistono nella messa a disposizione di un utente di una mera piattaforma online liberamente utilizzabile (nei limiti del rispetto delle policy dei rispettivi erogatori). È questo dunque il terreno più fertile per l’attività di promozione dei prodotti del settore (che resta comunque ammessa solo ove non si incorra in altri divieti espressi di legge) ove, peraltro, è evidente che si siano concentrati il gran numero degli operatori.
Il terreno delle piattaforme web non è, tuttavia, il solo di interesse per l’attività di pubblicità dei prodotti del settore. L’articolo 21, comma 10, nel vietare “qualunque forma di contributo pubblico o privato a eventi, attività o persone singole e a cui partecipino o che si svolgano in vari Stati membri o che comunque abbiano ripercussioni transfrontaliere aventi lo scopo o l’effetto diretto o indiretto di promuovere le sigarette elettroniche e i contenitori di liquido di ricarica”, “suggerisce” infatti, con ragionamento a contrario, altre tipologie di pubblicità ammesse: le contribuzioni con finalità promozionale ad eventi, attività o persone di rilievo pubblico ove detti eventi, dette persone o dette attività non coinvolgano più Stati membri e, ad ogni modo, non abbiano rilievo transfrontaliero (si pensi, così, ad eventi aziendali, attività promozionali antifumo anche di livello nazionale, fiere di settore locali, ingaggio di testimonial, eccetera).
Al pari sono ammesse, per espresso richiamo normativo, le “pubblicazioni destinate esclusivamente ai professionisti del commercio delle sigarette elettroniche e dei contenitori di ricarica” e le “pubblicazioni stampate e edite in Paesi terzi, se tali pubblicazioni non sono destinate principalmente al mercato dell’Unione europea”. Ragion per cui è certamente lecita – e la ratio è evidentemente da cogliere nei fini intrinseci che tale comunicazione persegue – la pubblicità di ecig e contenitori di liquidi di ricarica contenenti nicotina sulla stampa diretta a professionisti del settore, quale certamente è, ad esempio, la presente rivista o come potrebbero essere cataloghi di settore o periodici informativi diretti ai rivenditori.
Svolta questa breve disamina, nel ricordare che non è possibile fornire a priori alcuna indicazione puntuale su cosa sia effettivamente ammissibile e cosa, al contrario, non lo sia (le situazioni non posso che essere vagliate di volta in volta), è importante ricordare che, ferme le previsioni richiamate, l’articolo 21 in esame, con l’evidente intento di ampliare il proprio ambito di applicazione, espressamente vieta le forme di pubblicità richiamate anche quando esse perseguano uno scopo o abbiano un effetto promozionale solo indiretto (si legge infatti testualmente all’art. 21, c. 10, che il divieto opera anche quanto l’attività promozionale abbia “lo scopo o l’effetto (…) indiretto di promuovere le sigarette elettroniche e i contenitori di liquido di ricarica”.)
Non sono dunque ammesse le “strategie” pubblicitarie volte ad aggirare i divieti espressi che, ad esempio, si soffermino su liquidi non nicotinici, ma con il chiaro intento ed effetto di promuovere liquidi contenenti nicotina. Appaiono al contrario ammesse – in assenza di espresso divieto – le formule promozionali “atipiche”, quali il brand stretching e il merchandising purché, anche in tal caso, non si traducano una indiretta promozione di un prodotto la cui pubblicità è vietata ex lege.

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