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Sigarette elettroniche: che invidia, siete inglesi!

Il Regno Unito è un laboratorio d'avanguardia nella diffusione del vaping. Dalle ricerche scientifiche sino alle regole di comportamento, si dimostra sempre un passo avanti al resto d'Europa e del mondo.

(tratto da Sigmagazine bimestrale #7 marzo-aprile 2018)

Il Regno Unito è ormai diventato il grande laboratorio della sigaretta elettronica. In nessun altro Paese al mondo, infatti, lo strumento di riduzione del danno è stato accolto con tanta apertura. Alla iniziale curiosità, si è gradualmente sostituita una crescente benevolenza, fino ad arrivare ad un riconoscimento pressoché unanime della sua utilità. Le autorità sanitarie britanniche hanno piantato delle pietre miliari nel riconoscimento del vaping come alleato per la riduzione dei tassi di fumatori. Nel 2015 l’agenzia del Ministero della salute, Public Health England, rompeva gli indugi e, mettendo nero su bianco che l’ecig era molto meno dannosa del tabacco, concludeva: “Abbiamo la possibilità di aiutare i fumatori a smettere e quindi possiamo incoraggiare i fumatori a provare a svapare”.
Sei mesi dopo a questa posizione si aggiungeva la prestigiosa benedizione del Royal College of Physicians che, in base agli studi disponibili, identificava una percentuale per la riduzione del danno dell’elettronica rispetto alla sigaretta convenzionale: il 95 per cento. Un dato impressionante che ha dato – e dà tuttora – ossigeno ai sostenitori del vaping in tutto il mondo. Da allora la strada dell’ecigarette nel Regno Unito è stata in discesa, complice anche una classe politica che non si è limitata a demandare il suo compito di legislatore ad oscuri funzionari, ma ha svolto il suo ruolo attivamente. L’ultimo esempio è quello dello scorso gennaio, quando lo scienziato siciliano Riccardo Polosa è stato ascoltato, insieme ad altri colleghi, dal Parlamento inglese. Proprio quel Polosa che potrebbe rappresentare il fiore all’occhiello della nostra ricerca e che invece in Italia nessuno si degna di ascoltare. Nemo profeta in patria, si dice. Ma la saggezza degli antichi offre scarsa consolazione quando si parla della salute pubblica.
Alla fine del 2016 anche il Royal College of General Practitioners, quelli che da noi sono i medici di base, sollecitava la categoria a “consigliare e supportare l’uso della sigaretta elettronica fra i pazienti che volevano smettere di fumare” e spronava a “non rinviare i benefici di questo strumento per contrastare il tabagismo”. Lo stesso ha fatto la British Psychological Society, convinta che i pazienti psichiatrici – fra i quali si registra un tasso di tabagisti superiore alla media nazionale  – possano trarre grandi vantaggi dal passaggio all’ecig, senza che il loro equilibrio sia minato da crisi di astinenza. Molti sono anche gli ospedali che hanno abolito il divieto di svapare, inasprendo quello di fumo. Il primo fu quello di Glasgow, in Scozia, seguito da molti altri, fino ad arrivare alle raccomandazioni emanate in questi giorni da Public Health England, che prevedono che l’ecig siano messe in vendita all’interno degli ospedali. Non si contano gli interventi a favore del vaping di Cancer Research UK – l’Istituto nazionale contro il cancro –  che non solo fa da anni informazione a tutti i livelli e in tutti i registri, ma si sforza strenuamente anche di contrastare la disinformazione scientifica e mediatica.
Nel Regno Unito la sigaretta elettronica è entrata anche nelle carceri, per tutelare la salute dei detenuti, ma anche degli agenti penitenziari e di tutti gli operatori che vi lavorano. E dove aveva fallito il divieto di fumo tout court, ha avuto successo l’introduzione dell’ecig e i programmi sperimentali si sono trasformati in misure permanenti. Insomma, la sigaretta elettronica è entrata in carcere e ci resterà a vita, mentre in Italia non si riesce a concretizzare una misura analoga, ancora prigioniera nei meandri della nostra burocrazia bizantina.
Lo scorso anno, nel mese di ottobre, l’elettronica è stata protagonista principale della campagna annuale antifumo del Ministero della salute, Stoptober. Grazie alla collaborazione con l’associazione dei produttori dei prodotti per il vaping, la campagna si è svolta su livelli multipli, coinvolgendo autorità e operatori sanitari, ma anche negozi di sigarette elettroniche, produttori e distributori. E, soprattutto, i centri antifumo, che nel Regno Unito funzionano davvero. E ormai sono lontani i giorni in cui la pioniera Louise Ross, direttrice dello Stop Smoking Centre di Leicester, nello scetticismo generale si recava allo stadio o tappezzava di manifesti le strade di Leicester per convincere i fumatori a passare al vaping. Oggi tutti i centri antifumo del Paese sono chiamati a fare la loro parte e gli operatori non restano abbarbicati alla vereniclina, i cerotti alla nicotina o al counselling psicologico, ma si avvalgono dell’unico strumento che ha dimostrato di funzionare davvero: la sigaretta elettronica. E per aiutarli, il National Centre for Smoking Cessation and Training ha appena messo a punto una guida dettagliata, riservata proprio agli operatori sanitari.
Tutto questo dipinge il quadro di uno sforzo davvero corale per contrastare il fumo, che sta dando i suoi frutti, visto che il tasso di fumatori nel Paese ha raggiunto i minimi storici e i vaper esclusivi hanno superato quelli duali. Ma soprattutto, dipinge l’immagine di un Paese vitale e pieno di energie, che sceglie quale strada percorrere in autonomia, con una classe medica e politica che si interroga e apre nuove vie, senza avere paura di contrastare interessi costituiti e organizzazioni polverose, alle quali rimane poco più del blasone. Il Regno Unito è vivo ed è lì che dobbiamo rivolgerci come al grande laboratorio mondiale che darà tutte le risposte sul vaping. A noi, per ora, non resta che restare a guardare e provare una benevola invidia.

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