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Giornata senza tabacco, Eurispes: è ora di puntare sulla riduzione del danno

La leva delle accise, utilizzata finora dallo Stato per disincentivare il fumo, non sembra bastare per ridurre il consumo.

Di fronte a questi dati e a questi atteggiamenti, c’è da chiedersi se il “golden standard” della cessazione dall’abitudine al fumo e le doverose politiche di dissuasione verso i più giovani, siano gli unici percorsi su cui impegnare il sistema socio-sanitario e quello della comunicazione o se, in aggiunta, non debba essere preso in seria considerazione l’obiettivo della riduzione del danno”. È questa la riflessione dell’istituto di ricerca Eurispes a fronte dei dati sulla prevalenza dei fumatori, diffusi oggi nel corso della Giornata senza tabacco che si è svolta presso l’Istituto superiore di sanità.
Ancora una volta, il nostro Paese si trova a registrare una situazione di stallo nel numero dei tabagisti, con le cessazioni che sono compensate dai nuovi inizi e numero dei fumatori che riportano indietro al 2008 e al 2014. Mentre altri Paesi, come il Regno Unito o la Francia, che hanno abbracciato una strategia di riduzione del danno, vedono crollare il numero dei fumatori. Per questo Eurispes, che recentemente ha condotto diverse ricerche sul tema, chiede che “a livello internazionale, non mancano studi pubblici e indipendenti che attestano la minor tossicità dei liquidi delle e-cigarette e degli stick del tabacco riscaldato, anche se è doveroso che si continui a ricercare e a validare, a livello scientifico e di analisi epidemiologica, questi nuovi strumenti”.
Ecco il testo integrale del comunicato Eurispes:

Il consumo di tabacco ogni anno produce nel mondo almeno 70 milioni di morti. Le politiche di dissuasione, attuate in Italia dalla legge Sirchia del 2003, hanno comportato una contrazione di consumi la cui parabola, però, negli ultimi anni è andata declinando. Oggi (dati Istituto Superiore di Sanità 2019) i fumatori nel nostro Paese sono ancora più di 11,6 milioni, una quota pari al 22% della popolazione, mentre fuma l’11,1% dei giovani tra i 14 e i 17 anni. Negli ultimi anni è diminuita la quota dei fumatori, ma è cresciuta quella delle fumatrici. Le morti legate al consumo di tabacco sono in Italia più di 70mila ogni anno.
Per ridurre i consumi di tabacco lo Stato è intervenuto principalmente attraverso la leva delle accise, alzando il costo del pacchetto di sigarette, o degli altri prodotti del tabacco, ma una quota assai rilevante e stabile di fumatori non si dimostra aggredibile da questo punto di vista. Su di un altro versante, l’offerta di assistenza a chi vuole smettere di fumare gestita dai Dipartimenti delle Dipendenze della Asl e dai Centri anti-fumo, riesce a intercettare una media di soli 17mila pazienti l’anno, con un tasso di efficacia, ad un anno dal primo intervento, inferiore al 50%.
In una ricerca del 2018, l’Eurispes ha segnalato che solo il 9% dei fumatori italiani dichiara di voler smettere “entro 6 mesi”, e un 17,6% “non in tempi brevi”. Ma il dato più eclatante è quello relativo ai fumatori che dichiarano di non voler “assolutamente” smettere (18,3%), mentre il 26,6% afferma che “dovrebbe”, ma non “vuole” farlo. Il 28,5% afferma infine che “dovrebbe”, ma che ritiene di “non riuscire a smettere”. La somma di queste percentuali genera una quota del 73,4%; quasi tre quarti dei fumatori è dunque fuori da qualsiasi percorso, anche solo ipotetico, di abbandono del consumo di tabacco.
Di fronte a questi dati e a questi atteggiamenti, c’è da chiedersi se il “golden standard” della cessazione dall’abitudine al fumo e le doverose politiche di dissuasione verso i più giovani, siano gli unici percorsi su cui impegnare il sistema socio-sanitario e quello della comunicazione o se, in aggiunta, non debba essere preso in seria considerazione l’obiettivo della “riduzione del danno”.
Da questo punto di vista alcuni paesi sono senz’altro più avanti dell’Italia nella valorizzazione dei nuovi strumenti presenti sul mercato, ovvero i vaporizzatori (sigaretta elettronica) e i device per il tabacco riscaldato. Per fare gli esempi più interessanti, il Giappone negli ultimi anni ha visto salire la quota di mercato del tabacco riscaldato fino al 25% del pre-esistente consumo di tabacco combusto, mentre in Gran Bretagna la sigaretta elettronica ha conquistato milioni di consumatori ed è promossa dalle autorità sanitarie nazionali come valido strumento per l’abbandono del tabacco combusto; gli Stati Uniti hanno adottato un rigoroso processo di valutazione dei prodotti innovativi, basato su evidenze scientifiche.
A livello internazionale, non mancano studi pubblici e indipendenti che attestano la minor tossicità dei liquidi delle e-cigarette e degli stick del tabacco riscaldato, anche se è doveroso che si continui a ricercare e a validare, a livello scientifico e di analisi epidemiologica, questi nuovi strumenti.
È legittimo che non si abbandoni il “principio di precauzione” rispetto a prodotti che hanno pochi anni di vita e di presenza sul mercato; ma ciò non significa che l’evidente “riduzione del danno” derivante dal passaggio dal tabacco combusto all’e-cigarette o al tabacco riscaldato, debba essere sminuita e non valorizzata per ridurre i danni alla salute dei fumatori tradizionali.
La ricerca dell’Eurispes ha segnato come ben l’82,2% dei fumatori italiani si è dichiarato desideroso di essere informato sull’esistenza di prodotti alternativi al fumo tradizionale, e meno dannosi per la salute. Il 61,7%, inoltre, si è detto disponibile a passare a questi nuovi prodotti, una volta verificata la loro minore nocività.  Lo Stato ha, in qualche misura, riconosciuto questa riduzione del danno, e nella Legge di Stabilità del dicembre scorso ha fortemente abbattuto le accise sui nuovi prodotti. Questa attenzione – che senz’altro va confermata – dovrebbe condurre ad una apertura anche nell’area della comunicazione, rispettando il diritto del consumatore ad essere informato e guidato verso scelte più adeguate a preservare la salute. Sarebbe utile che anche le autorità sanitarie del Paese, Ministero e Istituto Superiore di Sanità, mostrassero una maggiore apertura, evitando di fare del “principio di precauzione” un alibi per chiusure pregiudiziali o non accordate con i bisogni e le condizioni reali dei cittadini-fumatori“.

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