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Smettere di fumare, perché la spinta gentile è meglio delle immagini shock

Il cervello ci tende continue trappole. Per questo proporre scelte positive è più efficace di strategie basate sulla paura.

(tratto dalla rivista Sigmagazine #14 maggio-giugno 2019)

E se smettessi? Sì, ma come? Nella vita di ogni fumatore prima o poi si affaccia alla mente questa domanda alla quale si può rispondere in migliaia di modi. Magari il giorno dopo il quesito è stato superato da altro, semplicemente omesso, rimosso, rimandato a data da destinarsi, come i lunedì delle diete, che non arrivano mai. La maggior parte dei fumatori vuole smettere di fumare, ma solo circa il 10-30 per cento ha veramente intenzione di smettere nei prossimi trenta giorni. Quando i fumatori fanno un tentativo di smettere, tendono a non usare trattamenti basati sull’evidenza e senza trattamento, solo il 5 per cento circa raggiunge l’astinenza a lungo termine. Anche con un trattamento basato sull’evidenza (consistente in counseling e/o farmaci), solo circa il 10-30 per cento raggiunge l’astinenza a lungo termine.
Ma perché fumiamo? Lo sappiamo davvero? Ricorderete forse la prima sigaretta, ma non che abbiate deciso di diventare tabagisti. Non si decide. Si rimane legati per anni a un oggetto di consumo, bloccati in una dipendenza sia fisica che psicologica con un corollario di sensi di colpa e rischi per la salute. Rischi che, nella maggior parte dei casi, sono liquidati con un “non può succedere a me” o, in alternativa, “mio nonno ha fumato tutta la vita Nazionali senza filtro ed è campato 90 anni”. A chi avete dato la colpa per aver iniziato a fumare? Alle multinazionali del tabacco? Allo Stato che vende le sigarette? Alla nicotina che dà dipendenza? Alla debolezza di carattere? A quella prima fidanzata bionda, bellissima e inarrivabile che vi ha spezzato cuore e orgoglio quando ha scelto l’altro? Ragioniamo con la testa, il cuore o la pancia? Nessuna di queste risposte è corretta. Diciamo che di solito tendiamo ad attribuire la responsabilità a fattori esterni, mentre la responsabilità è nascosta nelle profondità del nostro cervello.
Cervello a cui attribuiamo la qualità della razionalità, della ragione e del buonsenso. Peccato che le cose non stiano esattamente così. Il cervello infatti ci inganna sistematicamente e ci fa cadere in errore. Un auto-sabotaggio in piena regola. Lo dice la psicologia cognitiva che studia la percezione, la sensazione, l’impressione, il pensiero, l’apprendimento, il ragionamento, la risoluzione dei problemi, la memoria, l’attenzione, il linguaggio e le emozioni. La verità è che il nostro cervello predilige le risposte e le soluzioni semplici, che non prevedano un eccessivo dispendio di energia: è pigro e conservatore e rifugge la complessità. Un esempio: tutti sanno che il fumo fa male (anche se pochi ne hanno capito i rischi reali), ma continuano a fumare nonostante il tentativo di spaventare con pacchetti che mostrano persone gravemente malate a causa della loro dipendenza.
In una discussione, argomentare che l’interlocutore ha torto non è funzionale, perché le persone sono attaccate alle proprie credenze e sono disposte a modificare qualcosa del loro pensiero solo se l’informazione è in linea con le loro credenze: si chiama “bias di conferma”. Ecco perché siamo più propensi a dare credito a quelli che la pensano come noi: modificare le convinzioni infatti prevede un grosso dispendio di energie e un adattamento. Non ci credete? Uno studio di Camelia Kunnen dell’Università del North Carolina ha evidenziato che l’attività cerebrale diminuisce quando le persone ricevono notizie che non concordano con le loro opinioni. Se vogliamo farci ascoltare, allora, meglio quindi partire da una argomentazione che trovi terreno comune e poi sovrascrivere le informazioni nuove che vogliamo far recepire.
Secondo la teoria dell’attribuzione – anche nota come trappola dell’osservatore – tendiamo a valutare in maniera asimmetrica quello che ci accade: gli altri sono giudicati negativamente, mentre se noi facciamo la stessa cosa, beh è più facile che sia colpa delle circostanze. Così se un nostro collega non riesce a smettere di fumare probabilmente non ha abbastanza carattere, mentre se siamo noi a non riuscire a chiudere con il tabagismo è probabile sia colpa del lavoro stressante o del fatto che a casa tutti fumano intorno a noi. Per un fenomeno attribuibile alla tendenza all’autocompiacimento e alla resistenza ad infliggerci frustrazioni, le colpe di un eventuale fallimento vengono scaricate all’esterno, il più lontano possibile. Abbiamo infatti bisogno di sentirci migliori per tenere alta l’asticella della nostra autostima.
Molte delle politiche adottate per dissuadere i fumatori dal perpetuare l’abitudine al fumo sono basate su paura e immagini shock; ma non conosco nessuno che abbia smesso dopo aver visto le immagini di malati terminali, ora per legge presenti in tutti i Paesi. Si tratta di una forma di “cecità selettiva” per cui non vediamo ciò che non ci fa piacere, quello che ci turba o che non ci fa comodo viene semplicemente dimenticato. Un meccanismo che fa capo a quello che viene definito “hyperbolic discounting” termine scientifico complesso, che indica la propensione a scegliere il piacere immediato rispetto alla felicità a lungo termine. In un esperimento del 1998, ai partecipanti fu chiesto di scegliere tra un frutto sano e uno snack al cioccolato: quando la scelta era proiettata nel futuro, il 74 percento degli individui sceglieva la frutta, quando invece era immediata, il 70 per cento degli individui preferiva lo snack al cioccolato.  Insomma, meglio un uovo oggi che una gallina domani.
Anche il deterrente rappresentato dall’aumento del prezzo dei pacchetti del 10 per cento genera una diminuzione del consumo del 4-5 per cento, ma non necessariamente la cessazione e quindi la diminuzione del numero dei fumatori, così come sottolineato dall’Oms. È importante allora che gli individui abbiano la sensazione che tentare di smettere o scegliere un prodotto alternativo per diminuire i rischi, sia una libera scelta e non una imposizione.
Nell’impresa di smettere di fumare il problema non è quello di superare il desiderio acuto, ma prendere per mano il fumatore e affrontare con lui altri aspetti: le abitudini, lo stress del lavoro, la gestualità, la gratificazione gustativa, le emozioni.
Smetto da lunedì. C’è sempre tempo per mettere in atto i buoni propositi. Quanti di voi hanno pagato in anticipo un abbonamento annuale in palestra, attratti da qualche mese gratis e poi non ci hanno messo piede? Alcune ricerche hanno dimostrato che il maggior introito dei centri fitness è dato proprio da coloro che pagano, ma non usufruiscono di quello che hanno pagato. Il domani in fondo è futuro e come tale, beh, non arriva mai. Nel 2008, Richard Thaler e Cass Sunstein hanno affrontato la questione dell’influenza del comportamento senza coercizione, postulando una vera e propria architettura della scelta e l’efficacia delle “spinte gentili”, che sarebbero più efficaci delle coercizioni. La spinta, in inglese nudge, è qualsiasi aspetto in grado di alterare il comportamento. Facciamo un esempio: mettere della frutta su uno scaffale all’altezza degli occhi conta come una spinta a comprarla e funziona assai meglio dello sconsigliare cibo spazzatura.
Torniamo allora al fumo, ai fumatori e ai centri antifumo. Il tasso di cessazione media di un centro antifumo è del 45 per cento. Una percentuale incoraggiante vero? Il problema è che su 12 milioni di persone che fumano, in Italia quelli che varcano la soglia di un centro antifumo sono solo 16 mila. Ne smettono quindi tra i 7 e 8 mila l’anno. Troppo pochi. Ma volendo leggere il dato da un altro punto di vista, il 55 per cento di quelli che cercano aiuto non ce la fanno. Ecco perché servono approcci diversi, improntati alla ricevibilità della proposta, facendo leva sul bias di conferma, quei meccanismi che ricercano e selezionano solo le informazioni che confermano le proprie  convinzioni.
E se non credete che la paura non funzioni, ecco la prova scientifica: una ricerca sul Journal of Clinical Oncology ha indagato i comportamenti relativi a fumo e alcol rilevando come i sopravvissuti che riferivano di continuare a fumare erano il 20 per cento (rispetto al 23,6 per cento di quelli che non erano stati malati). Ma il dato ancora più sorprendente e apparentemente contro-intuitivo è che nelle persone sopravvissute al cancro con meno di 40 anni, il rateo di fumatori balzava al 42,6 per cento rispetto al 20,5 del gruppo che non aveva una storia di malattia. Inoltre più della metà dei “sani”, precisamente il 54,7 per cento, riferiva di non aver mai fumato, contro il 44 di coloro che avevano superato la malattia. Le raccomandazioni basate sulla paura quindi non avrebbero una grande efficacia. Occorre dunque ripensare agli approcci che possono portare le persone a fare scelte positive e salutari per la propria salute, che prevedano ascolto e proposte accettabili e ricevibili.