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La crociata morale degli Stati Uniti contro la sigaretta elettronica

Mentre gli Usa pensano di vietarla, il Regno Unito la promuove anche dentro gli ospedali. E l'Italia, come spesso accade, rimane alla finestra.

Qualche settimana fa ho partecipato ad un evento a Birmingham. L’occasione è stata propizia per andare a salutare un vecchio conoscente che lavora all’ospedale cittadino. Il fumo è vietato in ogni luogo, interno e adiacente. Persino nel parcheggio. E infatti non si vedono fumatori e neppure cicche. Non è insolito invece vedere medici e pazienti utilizzare la sigaretta elettronica. Avrei voluto svapare anche io ma, pensando che fosse vietato, non mi ero premurato di portare con me il liquido di ricarica. Nessun problema: al piano terra, proprio accanto all’ingresso, c’è un negozio di sigarette elettroniche. Sì, una vera e propria rivendita, come quelle che siamo soliti vedere lungo le nostre strade. Uno scenario quasi surreale: mi trovavo in un ospedale e avevo a disposizione una intera gamma di liquidi per sigarette elettroniche, molteplici gusti con diversi dosaggi di nicotina. Il negozio ha aperto a luglio dopo aver ottenuto la concessione governativa. L’idea del Regno Unito è semplice: dare la possibilità ai medici e ai pazienti di usare la sigaretta elettronica equivale a scoraggiarli e allontanarli dal fumo. La strategia inglese sta premiando: negli ultimi anni il numero dei fumatori è diminuito del 5 per cento ma soprattutto si è allargata la forbice con coloro che iniziano.
Questo succede in Inghilterra. Nel frattempo, negli Stati Uniti, le persone muoiono a causa di malattie al sistema respiratorio causate dalla sigaretta elettronica. C’è qualcosa che non torna. Così come gli inglesi non sono supereroi immuni alle malattie polmonari, così gli Usa non possono essere ricettacolo di patologie di non meglio identificata natura.
Per capire cosa sta succedendo occorre allora immergersi nelle due culture. Per dirla con le parole del professore Brad Rodu, la differenza di approccio tra Regno Unito e Stati Uniti è dovuta alla propensione americana a trasformare i problemi di salute in crociate morali. I britannici, invece, pur ascoltando i pareri di tutte le parti in causa – produttori, lobbisti, consumatori, medici – hanno la capacità di decidere ponderando le informazioni, di legiferare ragionando sul lungo periodo, di difendere le loro scelte anche arrivando allo scontro. Alle politiche prima lassiste e poi proibizionistiche degli Stati Uniti, il Regno Unito, e più in generale l’Europa, ha risposto con una regolamentazione ad hoc del tabacco e delle sigarette elettroniche. Quella che tecnicamente si chiama Direttiva europea sui tabacchi e prodotti liquidi da inalazione (Tpd). Anche in seno all’Unione europea, poi, ci sono stati recepimenti variabili di Stato in Stato ma la cornice regolatoria è comune. Basti pensare che negli States si vendono liquidi di ricarica con concentrazioni di nicotina anche tre volte superiori al massimo consentito in Europa. Basti pensare che negli States chiunque può vendere una miscela vaporizzabile mentre in Europa occorre notificarla presso i ministeri della salute, fornire i dati sulle emissioni, aspettare sei mesi prima di poterla vendere.
Dopo la crisi di malattie polmonari, gli Stati Uniti hanno reagito nel modo più semplice e comodo: proibire, vietare, chiudere. A un lungo periodo senza nessuna regola, si risponde con la tentazione del divieto totale. Dal tutto al niente. Un approccio che non solo rischia di rispedire tanti svapatori ex fumatori dritti nelle braccia del tabacco combusto, ma che potrebbe spianare la strada al mercato illegale, al contrabbando, alla produzione e alla vendita illecita, alla criminalità. Senza, naturalmente, alcuna garanzia di qualità e sicurezza. E che questo pericolo sia concreto e reale lo dimostra il fatto che, dopo l’allarme generalizzato, nelle ultime settimane la verità sta venendo a galla. A causare le centinaia di ricoveri e le decine di decessi è stata con tutta probabilità una sostanza contenuta in un liquido destinato allo sballo, liquido prodotto con metodi artigianali e pericolosi e venduto e acquistata per canali illegali.
Se Stati Uniti e Regno Unito rappresentano le politiche estreme, l’Italia si pone nel mezzo. Il mercato è sicuro, garantito e normato. Dal 2016 abbiamo adottato una legge che stabilisce rigide condotte sia per i produttori che per i rivenditori. Manca però l’approccio sanitario anglosassone. Le nostre istituzioni non riconoscono la sigaretta elettronica come uno strumento che riduce il rischio del fumo ma la considerano un vizio, un oggetto che può portare i giovani a fumare. Su questo fronte, l’Istituto superiore di sanità italiano ha un approccio molto statunitense. Anziché capire, anziché studiare, anziché approfondire e trovare soluzioni offrendo opportunità, preferisce evitare il confronto e cavalcare la linea del proibizionismo.
Il Regno Unito ha una lunga tradizione e competenza in materia di riduzione del danno. Già da decenni ha dimostrato che non è la nicotina la sostanza nociva del tabacco, ma le migliaia di altri gas tossici e particelle di catrame derivanti dalla combustione. E in linea con questo, il legislatore inglese sta agendo di conseguenza: promuovere la sigaretta elettronica significa abbattere sensibilmente le malattie e i decessi fumo correlati. Parafrasando un vecchio adagio: il Regno Unito previene, l’Italia cura. O, per dirla con le parole di Dave Cross (New Nicotine Alliance): “
Lo svapo nel Regno Unito sta funzionando e ormai nessuno ce lo toglierà. Funzionerebbe in tutto il mondo, se gliene fosse data la possibilità“.

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