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Sigarette elettroniche, Giacomo Mangiaracina: “Uno più uno può fare 11”

Secondo il tabaccologo bisogna guardare con attenzione al coraggio dei britannici di prendere una decisione ferma sulla sigaretta elettronica. Senza mai perdere di vista che il vero nemico è il fumo, che uccide 8 milioni di persone ogni anno.

Medico e docente presso la facoltà di Medicina e psicologia dell’università di Roma La Sapienza, Giacomo Mangiaracina ha dedicato alla lotta al fumo gran parte della sua vita. Presiede l’Agenzia nazionale per la prevenzione e dirige la rivista specializzata Tabaccologia e ha collaborato con Minsitri della salute come Veronesi e Sirchia. E il suo impegno contro il tabagismo è anche il fil rouge che percorre anche la sua attività pubblicistica che conta articoli, saggi, testi universitari e anche lavori dedicati a un pubblico meno specializzato. Nel 2010 è stato fra i primi a misurare la minore tossicità della sigaretta elettronica rispetto a quella di tabacco ed oggi chiama ad un’alleanza formale professionisti della salute, produttori e negozianti di sigarette elettroniche.
A chi serve la sigaretta elettronica?
Intanto dobbiamo dire che la sigaretta elettronica serve, non è uno strumento da buttare via. Serve agli operatori della salute come ausilio professionale nel trattamento del tabagismo. Alla stessa stregua e, anzi meglio, rispetto ai prodotti sostitutivi della nicotina come cerotti, gomme, che hanno ugualmente dato problemi come bruciore allo stomaco, gastriti. Tutti i prodotti a base di nicotina vengono impiegati in terapia da tantissimi anni e la sigaretta elettronica si aggiunge come ausilio terapeutico.
Perché la ritiene utile?
Perché il danno è estremamente ridotto rispetto alle sigarette tradizionali. Ho appena ricevuto una telefonata da un mio paziente che è partito da 40 sigarette al giorno, le ha sostituite con il vaporizzatore a ricarica liquida, ha diminuito gradualmente la nicotina e ora sono tre mesi che non tocca più neanche quello. Si è liberato completamente. Mi è accaduto anche con decine di altri pazienti che hanno seguito lo stesso percorso. Il trattamento ha una sua efficacia e noi lo verifichiamo attraverso i nostri pazienti. Ovviamente il distacco dal tabacco deve essere totale, perché i consumatori duali, che cioè fumano e contemporaneamente utilizzano il vaporizzatore, non smettono mai. Il messaggio del terapeuta deve essere chiaro: o si transita totalmente oppure la partita è persa in partenza.
A proposito di danno ridotto, le autorità sanitarie britanniche stimano che la sigaretta elettronica riduca del 95% la tossicità del fumo. Condivide questo dato?
Noi ci basiamo sul dato scientifico, quello che normalmente chiamiamo evidenza. Se le evidenze sono queste, dobbiamo necessariamente accoglierle. Poi se arriveranno delle verifiche saremo pronti ad accogliere anche quelle. Nel 2010 io stesso ho condotto uno studio, pubblicato nel 2012. Con i miei collaboratori abbiamo esaminato una sigaretta elettronica di prima generazione, l’archeo-sigaretta elettronica, e ho fatto personalmente le misurazioni del microparticolato fine e ultrafine, fino ad 1 micron, prodotto da un doppio utilizzo, cioè come fumare due sigarette di seguito. Al T2, cioè al secondo utilizzo, con la sigaretta elettronica abbiamo misurato 50 microgrammi di Pm 10 per metro cubo, mentre la sigaretta di tabacco ne produceva 900 microgrammi per metro cubo. Un danno di venti volte inferiore, una differenza enorme.
Nel Regno Unito le autorità sanitarie e politiche promuovono il vaping come strumento per smettere di fumare.
Dobbiamo guardare con attenzione al coraggio che hanno avuto i britannici. Il coraggio di prendere una decisione e valutarne anche i risultati a distanza che mi pare che si stiano già vedendo. Il numero dei fumatori britannici è ridotto ai minimi storici: un dato importantissimo che non può essere negato. Invece mantenendo una posizione di prudenza ad oltranza, nel timore che possano accadere problemi di una certa importanza, si finisce per non fare nulla. Bisogna anche avere il coraggio di osare e quindi di sperimentare, indirizzare i fumatori a scalare la nicotina, naturalmente per quei prodotti dove è possibile farlo. Per il tabacco riscaldato, per esempio, non è possibile.
A chi è rivolta questa esortazione a osare?
Ai governi di quei Paesi dove invece il tabagismo non scende.
Come l’Italia?
Come l’Italia, dove il numero di fumatori è in stallo e dove, soprattutto, non viene fatta prevenzione. Noi, nel manifesto Tobacco Endgame (un movimento di pressione sulle istituzioni, ndr), diciamo quali sono i punti da affrontare per potere addirittura eradicare il tabagismo e uno dei primi aspetti che suggeriamo è l’elevazione del costo dei prodotti del tabacco. Sono quelli che ammazzano 8 milioni di persone al mondo ogni anno, il nemico numero uno è quello.
Perché le istituzioni sanitarie italiane sono così restie verso questo strumento?
È la preoccupazione ad oltranza. Si preoccupano del fatto che i giovani possano, attraverso l’utilizzo del vaporizzatore giungere al tabacco. Ma i giovani al tabacco ci giungono immediatamente! Il fatto che scelgano un prodotto a minore tossicità è senz’altro positivo. Va bene aspettare i dati a lunga scadenza, ma nel frattempo le preoccupazioni sono, a mio avviso, eccessive. E questo frena la possibilità di fare quello che hanno fatto i britannici, di incoraggiare i fumatori a transitare dalla sigaretta al vaporizzatore.
C’è anche un problema di informazione?
Certamente. I giornali hanno scritto cose ignobili, per esempio che il vaporizzatore fa più male della sigaretta o che fa venire l’acqua ai polmoni. Poi c’è stato l’handicap della supertassazione iniziale dei vaporizzatori e io sono stato fra i primi a oppormi su questo versante. Ma è chiaro che il lobbysmo delle multinazionali ha giocato un ruolo importante.
Quali multinazionali?
Quelle del tabacco che adesso sono diventate anche le multinazionali del tabacco riscaldato.
Il problema dei media è molto pressante soprattutto in questo periodo, in seguito alla crisi di malattie polmonari negli Stati Uniti. Come vede questa vicenda?
Innanzi tutto è una cosa che sta succedendo negli Stati Uniti e solo lì. Come mai non ci arrivano notizie del genere da altre parti del mondo? È chiaro che il problema risiede lì, non in Europa o dove ci sono delle filiere controllate sulle ricariche che vengono adottate. Negli Usa ora tutti cavalcano questa storia, dicendo che bisogna vietare la sigaretta elettronica, una cosa che non sta né in cielo né in terra. Poi si scopre che i ricoverati hanno inalato tetraidrocannabinolo e chissà quale altro intruglio, proprio perché non c’è una tracciabilità, non sono prodotti affidabili. Ed è questo che va perseguito, non l’uso della sigaretta elettronica, sostenendo che quello che è accaduto negli Usa può accadere anche a noi. Sono sciocchezze belle e buone.
Quindi si sente di rassicurare i consumatori italiani?
Guardi, l’unica raccomandazione che faccio ai pazienti quando prescrivo il vaporizzatore è di acquistare ricariche fatte in Italia, dove è garantita la tracciabilità e, qualora dovesse sorgere qualche problema, sarebbe facile anche contenerlo. Quindi niente prodotti d’importazione, niente prodotti pescati in rete o, peggio ancora, da un mercato clandestino. La mia preoccupazione è che si stiano organizzando mercati clandestini di ricariche per vaporizzatori con varie sostanze non legali. I negozianti devono rassicurare i consumatori assicurando la tracciabilità del prodotto. D’altronde avviene la stessa cosa con i farmaci. Quante volte si scopre che un farmaco ha causato delle tragedie? Immediatamente la filiera si interrompe, si valuta e si capisce se è il farmaco o un determinato lotto e in questo modo viene contenuto. Questo avviene con tutto, ecco perché mi meraviglio che si faccia la caccia alle streghe.
Anche l’Oms ha dato recentemente dato un colpo alla sigaretta elettronica, definendola “incontestabilmente nociva” in un rapporto.
Quando si parla di nocività del vaporizzatore bisogna sempre paragonarlo alla sigaretta. Non si può fare una dichiarazione di nocività assoluta, distaccata da tutto il contesto. Va fatta in relazione al tabacco, che uccide 8 milioni di persone. Se poi arriveranno dei dati a lunga scadenza che ci diranno che nel mondo i vaporizzatori uccidono 100 mila persone l’anno, non sono comunque 8 milioni. Quindi rimane sempre un prodotto a tossicità ridotta.
Sembra di capire che lei veda la sigaretta elettronica molto inquadrata in un discorso terapeutico. Su questo sono in molti ad essere d’accordo: se affidata alle mani di un operatore è uno strumento di lavoro. Ma l’e-cig funziona anche perché rende il fumatore autonomo, senza bisogno di un percorso terapeutico.
Bisogna incoraggiare comunque quel percorso. Perché noi abbiamo valutato il fai da te sui grandi numeri e i risultati sono scarsi. Anche perché non c’è possibilità di controllo: si può dire di aver smesso ma non sono testimonianze attendibili. Lo diventa nell’ambito di studi controllati: si prende un certo numero di persone, si segue e da lì viene il dato. Io scoraggio sempre il fai da te. Se uno vuole smettere, prende un vaporizzatore e si fa seguire comunque da un tabaccologo. Su questo si potrebbe creare un’alleanza interessante, chiedendo ai produttori e ai negozianti di sigarette elettroniche di incoraggiare i fumatori a passare dai centri anti-tabagismo. Ci vorrebbe un’alleanza formale.
Come già accade in Gran Bretagna.
Sì e bisogna crearle queste alleanze. Se ci sono antagonismi, 1 più 1 fa zero. Se ci sono sinergie, può fare 11.

(tratto dalla rivista bimestrale Sigmagazine #17 novembre-dicembre 2019)

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