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L’industria farmaceutica serra le file contro la sigaretta elettronica

Se fino a qualche tempo fa le organizzazioni sanitarie filo-farmaceutiche avevano come bersaglio l’industria del vaping, adesso si scagliano contro i loro colleghi sostenitori della ricerca sulla riduzione del danno, a cominciare dagli inglesi.

Il gioco comincia a farsi duro. Se fino a qualche tempo fa le organizzazioni sanitarie filo-farmaceutiche avevano come bersaglio l’industria del vaping, adesso si scagliano contro i loro colleghi sostenitori della ricerca sulla riduzione del danno. Una lotta intestina che certamente caratterizzerà l’intero anno in corso.
Un lungo articolo pubblicato sull’American Journal of Public Health tende a sconfessare il lavoro di ricerca avallato nel 2013 da Public Health England, quella pietra miliare che sostiene che l’e-cigarettes abbatte del 95 per cento i rischi connessi all’inalazione di fumo da tabacco.
Alla base della critica, le mutate caratteristiche dei dispositivi elettronici. “Vi sono ampie prove – debutta l’autore Thomas Eissenberg, psicologo dell’Università della Virginia – che la gamma di prodotti per sigarette elettroniche oggi disponibile è molto diversa da quella del luglio 2013. Le differenze sono tali che, anche se la stima del 2013 fosse valida allora, non può più essere applicata oggi. Ad esempio, oltre a utilizzare materiali diversi, molte sigarette elettroniche oggi possono raggiungere una potenza che supera di 10-20 volte quella della maggior parte dei modelli da banco 2013 (ad esempio, fino a, e talvolta superando 200 watt). Una maggiore potenza aumenta i potenziali danni dell’uso di sigarette elettroniche perché viene prodotto più aerosol che espone gli utenti ad un aumento dei livelli di nicotina e altri elementi tossici. Aumenta anche l’esposizione degli astanti a tutti i componenti dannosi dell’aerosol perché gli utenti espirano più vapore. Inoltre, una maggiore potenza aumenta il potenziale di malfunzionamento”.
Il ragionamento potrebbe avere anche una propria valenza. Ma l’onestà intellettuale avrebbe dovuto imporre di segnalare anche un elemento che invece è stato sottaciuto: se è vero che i prodotti sul mercato sono moltiplicati, è anche vero che nel frattempo i governi hanno introdotto regolamenti e normative volti alla tutela del consumatore e alla sicurezza dei dispositivi.
Gli autori poi evidenziano che “numerosi studi dimostrano che la funzione cellulare è compromessa in seguito all’esposizione all’aerosol di sigaretta elettronica. Allo stesso modo, gli animali esposti agli aerosol di sigarette elettroniche mostrano chiare indicazioni di conseguenze avverse, anche nei modelli relativi alle malattie cardiovascolari”. Anche in questo caso omettono di segnalare che le ricerche da loro menzionate sono state effettuate a danno di topolini di laboratorio letteralmente soffocati dal vapore cui sono stati forzatamente costretti a respirare. È evidente che qualunque essere vivente sottoposto a situazioni estreme abbia conseguenze nefaste, che possono portare. Come nel caso dei topi, sino alla morte.
Non poteva mancare poi il classico leitmotiv che corona ogni ricerca anti-vaping: con la sigaretta elettronica i giovani si avvicinano al fumo. Una teoria che prende il nome di Gateway effect. La stessa teoria che negli anni scorsi ha vinto il non tanto ambito premio Scienza Spazzatura, riconoscimento assegnato alle ricerche risultate meno convincenti, più bizzarre o inutili.
L’articolo conclude che “si sono accumulate prove di potenziali danni. Pertanto, la stima priva di prove derivata nel 2013 non può essere valida oggi e non dovrebbe essere ulteriormente invocata. Le stime future del danno delle sigarette elettroniche dovrebbero essere basate sulle prove ora disponibili e riviste di conseguenza man mano che si accumulano ulteriori prove”. E qui torna il solito punto chiave: ma se le ricerche finanziate dall’industria non vengono considerate credibili e se i governi non hanno fondi per finanziarne alcune autonome, allora a chi occorre affidare la ricerca neutra e realistica sul vaping come alternativa al fumo? Forse ad autori come T. Eissenberg, “consulente in controversie contro l’industria delle sigarette elettroniche” oppure come S. Jordt, che ha “ricevuto commissioni personali da Hydra Biosciences LLC e Sanofi SA e supporto non finanziario da GlaxoSmithKline Pharmaceuticals”? Posto che la ricerca scientifica non dovrebbe essere sottoposta ad alcun pregiudizio se rispetta i criteri della replicabilità, veridicità e rigore, delle due però l’una: se non vale quella dell’industria della sigaretta elettronica allora perché dovrebbe valere quella sostenuta da Big Pharma visto che producendo e vendendo i farmaci nicotinici si propone sul mercato come un portatore d’interesse economico e commerciale?

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