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Sigarette elettroniche, la dottoressa Massaro: “La mia lotta antifumo azienda per azienda”

Un nuovo modo di approcciarsi con i fumatori: andare a cercarli sul posto di lavoro per accompagnarli insieme nel percorso di cessazione. È l’innovativo metodo della dottoressa Giuseppina Massaro che prevede, oltre alle tecniche psicologiche, anche l’utilizzo della sigaretta elettronica.

Se il fumatore non va alla montagna, è la montagna che deve andare dal fumatore. Questo è quello che pensa Giuseppina Massaro, psicologa torinese che da sempre si occupa di dipendenze a 360 gradi, e dal 2013 in particolare di fumo. E siccome meno dell’1 per cento dei fumatori si rivolge ai centri antifumo, la dottoressa Massaro ha pensato di fare il primo passo, andando a cercarli sul posto di lavoro. Così si è proposta alle grandi aziende, in particolare multinazionali, per fornire percorsi di disassuefazione al fumo ai loro lavoratori.

Cosa spinge un’azienda a investire risorse, tempo e denaro per far smettere di fumare i dipendenti?
Innanzitutto questi percorsi vengono presentati come sostenibilità e le aziende hanno dei riconoscimenti in base a quello che investono sul benessere della salute del dipendente. Inoltre, un dipendente che smette di fumare si ammala e si assenta di meno. L’azienda ne trae un vantaggio concreto, perché non deve sostituirlo, non deve pagargli, almeno in parte, la mutua. In alcune aziende questi progetti sono stati molto apprezzati anche dai sindacati, che ne sono venuti a conoscenza dai partecipanti e hanno chiesto che il percorso fosse continuato. I lavoratori hanno uno stimolo in più a partecipare, perché gli interventi vengono fatti nell’ambito dell’orario di lavoro, dunque non è necessario recarsi in qualche luogo, ma solo staccare mezz’ora per usufruire di un servizio, che per loro è gratuito.

C’è qualcosa che rende la dipendenza dal fumo diversa dalle altre?
È molto più subdola rispetto alle altre, perché il danno legato alla salute non si vede immediatamente, ma nel tempo. Questo induce il fumatore a opporre resistenza. La frase tipica è: “Ma io non sono mica malato!”, perché non si rende conto che, un pezzetto alla volta, malato lo può diventare. Le sigarette, come sappiamo, contengono sostanze cancerogene di classe A, il cui danno non si vede immediatamente, ma col tempo possono causare tumore, cancro o problemi cardiocircolatori. Patologie importanti che il fumatore si costruisce un po’ alla volta.

Quindi il fumatore deve essere convinto che ha bisogno di smettere di fumare?
Sì, non è una cosa immediata. Anche perché abbiamo a che fare con la nicotina, la sostanza che dà la dipendenza, che è la nona droga più potente e agisce sul cervello. A livello psicologico, il fumatore si crea continuamente scuse per rimandare il momento di smettere. Non aiuta il fatto che sia una dipendenza socialmente accettata. Anzi, se andiamo un po’ indietro nel tempo, prima che si scoprissero i danni del fumo, e pensiamo per esempio a Humphrey Bogart che aveva sempre una sigaretta in bocca come elemento di fascino, ci rendiamo conto che c’è proprio una cultura che è cresciuta insieme alla sigaretta, trasmettendo delle immagini e dei valori distorti.

Quanto è difficile far accettare al fumatore che ha bisogno di aiuto?
Facile non è. Io vado a lavorare proprio sulla testa del partecipante, cerco di fargli capire che tipo di fumatore è, perché in fondo noi siamo degli animali abitudinari. Il fumo funziona molto per associazioni di idee, per esempio caffè e sigaretta, oppure uno è nervoso ha la sensazione che la sigaretta lo aiuti a superare il momento. Esistono queste false credenze che la sigaretta aiuti a superare le difficoltà.

Qualcuno potrebbe obiettare che la sigaretta aiuta davvero in questi casi.
Aiuta perché la nicotina è un dopante, quindi dà per qualche minuto la sensazione di tranquillità. Ma poi il problema rimane e magari il nervoso rimonta. Anche un giro dell’isolato probabilmente dà lo stesso risultato senza farsi del male. Nel momento in cui nel percorso si iniziano a sfatare questi miti, facendo capire al fumatore che la sigaretta può aiutare, ma non risolve il problema, si comincia a spezzare la dipendenza psicologica e non solo fisica e ad avere dei risultati.

Qual è la dipendenza più difficile da sconfiggere: fisica o psicologica?
Dal mio punto di vista quella psicologica. Le faccio un esempio: analizzando il fumato di un fumatore, scopriamo che su dieci sigarette consumate, quelle che davvero servono per avere la nicotina, se va bene, sono solo cinque. Le altre sono quelle che definisco “superflue”, cioè fumate non perché se ne sente davvero il bisogno. Io chiedo ai fumatori di diminuire gradualmente il numero di sigarette, fino ad arrivare a quelle tre o cinque che sono lo zoccolo duro. Allora, al pensiero di dover eliminare anche quelle, inizio a leggere il terrore negli occhi delle persone. Ma in realtà, arrivati a tre sigarette, a livello di dipendenza fisica non c’è quasi più nulla. È più una questione di testa che di dipendenza fisica dalla nicotina.

 Fa ricorso anche altri strumenti di riduzione del danno, come le sigarette elettroniche?
Assolutamente sì. Grazie a Dio ci sono!

 Da quando le ha inserite nei suoi percorsi?
Indicativamente dal 2015, dopo che in uno studio, in collaborazione con il professor Fabio Beatrice e l’Istituto superiore di sanità, ho analizzato i risultati clinici di chi faceva lo switch, rilevando una importante riduzione del monossido di carbonio. Il vantaggio per me è stato grande, perché prima perdevo il fumatore che non ce la faceva, adesso invece lo recupero. E ho una riduzione del danno esponenziale. E il fumatore che magari non vuole smettere di fumare, continua con l’elettronica. Cinque anni fa sarebbe rimasto un fumatore con tutti i danni connessi. Per quel che mi riguarda e per quel che riguarda i percorsi che faccio, la sigaretta elettronica è assolutamente un aiuto.

 Le aziende come l’hanno presa?
Ho dovuto iniziare molto lentamente, perché inizialmente erano molto prudenti. Non si aveva grande conoscenza dello strumento e temevano di poter subire delle conseguenze se fossero sorti problemi. Oggi lasciano che io la proponga molto tranquillamente e spesso sono i fumatori stessi che mi propongono di usare l’elettronica. La visione di questo strumento sta cambiando.

Soprattutto a fronte delle notizie provenienti dagli Stati Uniti negli ultimi mesi, qualcuno le ha espresso preoccupazione verso la sigaretta elettronica?
Sì, è successo. Ma nel momento in cui ho spiegato come stavano le cose e ho dato loro gli strumenti per reperire tutte le notizie corrette, si sono tranquillizzati e non hanno più sollevato il problema. Quindi un minimo di allarmismo c’è stato.

Il ricorso alla sigaretta elettronica ha aumentato il tasso di successo?
Sì, assolutamente. In questo momento, per esempio, in un’azienda sto trattando venti dipendenti. Dieci hanno già smesso e di questi cinque stanno utilizzando l’elettronica: esattamente il 50 per cento. Se mi rendo conto che un fumatore non ce la fa, lo faccio switchare all’elettronica e poi insieme si decide cosa fare, anche arrivando alla cessazione definitiva. Il loro obiettivo e il mio mandato è quello di smettere, quindi di utilizzare l’e-cig per arrivare alla cessazione, ma in molti casi decidono che si trovano bene con l’elettronica e continuano a utilizzarla. A quel punto per me è già un successo, perché ho ridotto il rischio del 95-90%, a seconda del device. Quindi per me è uno strumento fondamentale in questo momento. Questo però non vuol dire che sia lo strumento per smettere di fumare, ma che lo può diventare in mano a un professionista.

Perché spesso i professionisti come lei non riconoscono la possibilità che questo strumento sia usato autonomamente dal fumatore per smettere?
Per la mia esperienza, quando i fumatori fanno il “fai da te” hanno buone probabilità di fallire. Alcuni riescono a smettere, ma altri dopo pochi mesi tornano a fumare, magari perché gli mancano delle nozioni o non erano così convinti, oppure rimangono duali. Utilizzare insieme sigaretta elettronica e di tabacco a livello di salute non è il massimo e rimane sempre alto il rischio di abbandonare l’e-cig. Nei miei percorsi, continuo a vedere regolarmente i lavoratori anche dopo il passaggio all’elettronica, per controllare che il cambio di modo di fumare si sia consolidato. È un percorso controllato e professionale.

Nella sua esperienza clinica, quali sono i vantaggi di questi nuovi strumenti rispetto alle terapie nicotiniche tradizionali come gomme e cerotti, che probabilmente utilizzava prima?
Sinceramente io non le utilizzavo, perché ho sempre fatto più un lavoro di testa.

Perché non le ritiene efficaci?
Sì e no. Io preferisco che il fumatore ci arrivi con il suo cervello, bisogna che acquisisca la consapevolezza di come fuma e quindi diventi in grado di esercitare un controllo. È un lavoro un po’ diverso. Naturalmente se mi chiedono i cerotti o la vareniclina, io sono tenuta a darglieli o a far fare la prescrizione per il farmaco che loro desiderano. Ho però visto che in questi casi non sono riusciti a smettere, a parte con la vareniclina che è un farmaco fatto apposta ma con un sacco di effetti collaterali. Il problema di queste terapie è che non permettono al fumatore di prendere la nicotina quando gli serve. Il cerotto dà nicotina in continuazione, ma quando il fumatore si trova in difficoltà e ha bisogno della botta di nicotina, va a cercare la sigaretta. Ho avuto persone che avevano il cerotto e fumavano. Perché è vero che il cerotto dà la nicotina, ma controlla solo la parte fisica, non quella psicologica. Cosa che spiega, invece, il successo della sigaretta elettronica.

Quindi lei, nel suo percorso, ha abbracciato, ove necessario, la strategia di riduzione del danno da fumo. Ritiene che questo possa rappresentare una soluzione per il problema delle malattie e le morti fumo correlate?
Sì, nel senso che passando dalla sigaretta tradizionale a quella elettronica si riduce il rischio del 95 per cento. Quindi è uno strumento ottimo per la riduzione del rischio.

(intervista tratta dalla rivista Sigmagazine #18 gennaio-febbraio 2020)

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