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Si chiude con un flop la petizione europea sulla sigaretta elettronica

Partecipazione scarsa, comunicazione assente, stakeholder immobili: l'iniziativa Vaping is not tobacco chiude nel peggiore dei modi.

Una disfatta. Un segnale di debolezza. Una occasione perduta. Si potrebbe descrivere in tanti modi l’insuccesso ottenuto dalla petizione europea Vaping is not tobacco, lanciata un anno fa e arrivata oggi al suo giorno di chiusura. L’obiettivo era importante: fare ascoltare la voce dei consumatori e degli operatori della sigaretta elettronica in ambito europeo, dimostrare le proprie ragioni, avanzare proposte che prevedevano la scissione del vaping dalla normativa del tabacco, creando invece una apposita Direttiva sganciata anche dai prodotti farmaceutici.
Perché questo accadesse, occorreva raccogliere un milione di firme, spalmate tra i 28 – poi diventati 27 a causa della Brexit – Paesi membri dell’Unione. Leggere a un anno di distanza il numero di sottoscrittori totali è disarmante: meno di 50 mila. E magra consolazione è vedere l’Italia seconda soltanto alla Germania come numero di firme raccolte: 11.800 per noi, 22.700 per loro. Fanno riflettere le 342 firme raccolte in Belgio, tra i Paesi più ostili in materia di vaping, i cui consumatori proprio per questo dovrebbero essere i più motivati. Per non parlare della Francia: 250 firme raccolte. E si può continuare con la Spagna (823), la Croazia (45), la Polonia (778).
A leggere i numeri si potrebbe pensare che al consumatore medio nulla importi nulla della regolamentazione o delle politiche legate al mondo della sigaretta elettronica. Può anche essere. Ma non basta. Ci deve essere un altro motivo su cui convogliare il disappunto della più parte degli stakeholder europei. Uno potrebbe essere aver visto tra i sostenitori economici dell’iniziativa la multinazionale Imperial Brands. Diecimila euro destinati alla realizzazione del sito. Certamente il logo dell’azienda può aver fatto storcere il naso a qualcuno. Ma se si vanno a vedere i brand aderenti, si può notare che non era l’unica Big del tabacco o multinazionale del vaping. C’era Bat, rappresentata dalla propria associazione, c’era Juul direttamente e, di conseguenza, c’era anche Altria, ovvero Philip Morris International. C’erano le principali associazioni di categoria italiane ed europee, dai produttori ai negozianti, sino ai consumatori. Col senno del poi, non è stata una scelta vincente aprire alle multinazionali e alle aziende, se è stato questo ad aver dato adito a timori e spavento agli occhi dei consumatori. D’altro canto è pur vero che, se loro stesse avessero impegnato direttamente forze e risorse per sostenere la petizione, probabilmente il risultato sarebbe stato molto più facile da raggiungere. O perlomeno si sarebbe arrivati molto più vicino. La loro scelta di esserci, insomma, è sembrato un fatto dovuto: piantare la bandierina per  rappresentanza ma senza colpo ferire.
Malumore è stato espresso anche perché in fase di sottoscrizione era richiesto l’inserimento dei dati anagrafici, verificati da documento d’identità personale. E sarebbe dunque questo un problema? Quando si acquista un biglietto ferroviario, si prenota un albergo, si compra un articolo online, quando si fa tutto questo non si inserisce addirittura il numero di carta di credito? Proprio perché era una petizione seria e riconosciuta dalla massima istituzione europea, era doveroso inserire i propri dati al fine di poter verificare l’esistenza del sottoscrittore. Con tutto il rispetto, non si trattava di una petizione su Change.org ma di una iniziativa regolamentata da norme e vincoli di legge. Ma probabilmente è mancata una chiara comunicazione a tutti i livelli sin dall’inizio. Pur essendo nell’era digitale, non si può affidare la sorte di una petizione soltanto al web. Occorreva procedere con più determinazione alla vecchia maniera: scarpe comode e strade battute, marciapiede dopo marciapiede, negozio dopo negozio. Per fare questo però occorrono – e si torna al ragionamento di poco fa – denaro e persone. Purtroppo in un anno sono mancati entrambi.
Aver fallito un appuntamento così importante alla vigilia della rimessa in discussione della Direttiva europea sui tabacchi e i prodotti liquidi da inalazione è stata un’occasione persa. Ma soprattutto ha dimostrato agli occhi del legislatore l’inconsistenza – per non voler dire l’assenza – di un movimento di opinione attorno al mondo della sigaretta elettronica. È questa la cosa più grave: aver forse perduto l’autorevolezza che soltanto i grandi numeri avrebbero potuto legittimare.
Il vaping ha bisogno urgentemente di una normativa chiara che possa sancirne il ruolo di alternativa al fumo. L’attuale direttiva, invece, lo pone sotto il cappello del tabacco, riconoscendogli quindi una subalternità, una correlazione. Non è così. Il vapore, i liquidi, anche gli aromi e gli accessori, hanno bisogno al più presto di regole chiare e puntuali, dettate da conoscenza e competenza. Soltanto un confronto serio e sincero avrebbe potuto se non altro portare avanti un ragionamento e una ipotesi di sviluppo unitaria basata su tre principi chiave: il vapore non è fumo; il vapore non è un medicinale; il vapore deve essere regolamentato autonomamente. Il problema di fondo, l’ostacolo che ogni volta si frappone tra il dire e il fare – e il mondo del vaping straborda di chiacchiere – è sempre lo stesso: chi deve decidere cosa? Chi deve rappresentare chi? Fino a quando il problema sarà “chi” e non “cosa” non si andrà da nessuna parte. Anzi, si andrà dove decideranno e vorranno altri. Si andrà, come foglie secche, nella direzione decisa dal vento.

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