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Ospedale di Parma: “Pochi fumatori fra i malati di covid-19”

Fra i pazienti ricoverati a marzo il 5% erano fumatori attivi e il 10% ex fumatori, mentre i non fumatori erano l'85%.

Un nuovo studio italiano, proveniente dall’ospedale universitario di Parma, si occupa di fumo e covid-19 e giunge alle stesse conclusioni di altri recenti lavori scientifici. E cioè che vi è una bassa prevalenza di fumatori fra i pazienti ricoverati per aver contratto la malattia da coronavirus. È una questione che sta dividendo la comunità scientifica internazionale e il perché è facilmente immaginabile: il fumo è la prima causa di morti prevenibili al mondo e sarebbe molto pericoloso se qualcuno si sentisse giustificato, o addirittura incentivato, a continuare in una pratica pericolosa per la salute. Le malattie causate dal fumo, cardiovascolari e polmonari in primis, rappresentano certamente un fattore che può causare un esito più grave nei malati di covid-19. Eppure, per quanto controintuitivo possa essere, un po’ dappertutto si sta registrando un dato sconcertante: fra i pazienti ospedalizzati i fumatori sono sottorappresentati.
Il lavoro in questione, intitolato “Smoking prevalence in low symptomatic patients admitted for covid-19”, non è ancora stato pubblicato e è stato sottoposto a peer review, ma è già disponibile su MedRxiv. L’autore principale è il dottor Nicola Gaibazzi, responsabile della Struttura semplice dipartimentale di Coordinamento attività specialistiche ambulatoriali cardiologiche dell’azienda Ospedaliero-universitaria di Parma, che ha lavorato insieme a Domenico Tuttolomondo, Angela Guidorossi, Andrea Botti, Andrea Tedeschi, Chiara Martini e Maria Mattioli, tutti della stessa struttura.
Lo studio riporta una serie di casi retrospettivi riguardante 441 pazienti con covid-19 confermato, che sono stati ricoverati a Parma tra il 5 e il 31 marzo scorsi. Di questi, 273 erano maschi (il 62%) e l’età media era di 71 anni. I pazienti deceduti durante il ricovero sono stati 156 (il 35%), mentre 285 (65%) sono stati dimessi perché clinicamente guariti. Ma veniamo ai dati sul fumo. Su 441 pazienti, i fumatori attivi erano 21, cioè il 5%, mentre gli ex fumatori erano 44, il 10%. L’85%, cioè 376 pazienti, erano non fumatori. Anche in questo caso, gli autori dello studio rilevano come la prevalenza dei fumatori attivi sia “sproporzionatamente bassa rispetto alla prevalenza del 24% dei fumatori nella popolazione italiana generale”.
Un risultato che, evidenziano gli stessi autori “appare replicare le scoperte che possono essere estratte da tabelle descrittive nei rapporti cinesi e anche nei recenti rapporti statunitensi da New York”. Gaibazzi e i suoi ricercatori suggeriscono quindi “che i fumatori possono trasportare un qualche tipo di meccanismo protettivo dall’infezione sintomatica Sars-cov-2”, specificando che saranno necessari ulteriori studi controllati appositamente progettati per confermarlo. I ricercatori di Parma ipotizzano una spiegazione: “È stato dimostrato – scrivono – che l’esposizione al fumo modula le risposte immunitarie e immunitarie adattative e riduce i livelli sistemici di marcatori immuni/ infiammatori, se confrontati con i non fumatori. Pertanto, il fumo potrebbe attenuare la normale funzione difensiva del sistema immunitario, che diventa tollerante a un insulto infiammatorio continuo”. Altri ricercatori, come Konstantinos Farsalinos, ipotizzano un ruolo protettivo della nicotina. Una cosa è certa: tutto questo potrebbe aiutare a capire i meccanismi del virus, ma non vuole assolutamente dire che non si debba smettere di fumare. Il fumo uccide più del covid-19.

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