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La conferma del San Raffaele di Milano: pochi fumatori fra i malati di covid-19

Dieci medici e ricercatori, fra cui Giulia Veronesi e Alberto Zangrillo, hanno osservato che, contrariamente agli altri coronavirus, il Sars-cov-2 sembra colpire con meno frequenza i fumatori.

Su Twitter Giovanni Landoni, professore associato presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e responsabile delle attività di ricerca di anestesia e Rianimazione all’ospedale omonimo, lo definisce “il suo articolo più provocatorio: veleno (tabacco) o piaga (covid-19)?”. Come si può intuire da questa battuta, il testo in questione, pubblicato su Critical Care and Resuscitation e intitolato “Recent Exposure to smoking and covid-19”, si occupa di pandemia e fumo. O meglio del fatto che, come rilevato già dallo scorso aprile da medici come Konstantinos Farsalinos, Raymond Niaura e Riccardo Polosa, i fumatori sono drasticamente sottorappresentati fra i malati di covid-19, in contraddisione con i primi allarmi lanciati dall’Oms e prontamente ripresi dalle istituzioni sanitarie di tutto il mondo, Italia compresa.
Oltre a quella di Landoni (in foto), il testo porta la firma di altri dieci medici e ricercatori quasi tutti provenienti dal San Raffaele di Milano, fra cui Giulia Veronesi e Alberto Zangrillo. I ricercatori milanesi hanno osservato nella loro struttura quello che ormai sta emergendo in tutto il mondo. E cioè che, contrariamente agli altri coronavirus, il Sars-cov-2 sembra colpire con meno frequenza i fumatori. “Recentemente – si legge nell’articolo – abbiamo pubblicato il caso di 73 pazienti criticamente affetti da covid-19 ventilati meccanicamente e abbiamo scoperto che il 2% di loro erano fumatori attivi, a fronte del tasso di fumatori attivi in Italia pari al 25%”. I numeri si ripetono: all’8 maggio su un totale di 130 pazienti ammessi in terapia intensiva il tasso dei fumatori era fra il 3,79 e il 3,8%. “Abbiamo poi cercato di determinare – continuano gli autori – lo status di fumatori dei primi 410 pazienti ammessi consecutivamente in ospedale ma non in terapia intensiva e abbiamo lo ottenuto per 274 pazienti. Di questi, sei erano fumatori (2,2%)”. I numeri sono confermati anche da un sondaggio anonimo condotto fra gli operatori sanitari della struttura.
I ricercatori hanno poi condotto una revisione degli studi disponibili sulle principali riviste scientifiche (molti provenienti dalla Cina) e hanno analizzato le serie di casi provenienti dai Paesi occidentali. Il risultato non cambia: “Abbiamo riscontrato un basso tasso di fumo di sigaretta nei pazienti che hanno sviluppato covid-19 che richiedono terapia intensiva o ricovero in ospedale rispetto alla popolazione generale”. Questo dato, che continua a sorprendere i medici, secondo Landoni può avere diverse spiegazioni. Non si può escludere, per esempio, una distorsione nella selezione selezione. “Tuttavia – commentano gli autori – la percentuale di fumatori rispetto ai non fumatori era simile tra i reparti generali e i pazienti in terapia intensiva”.
Oppure i fumatori potrebbero essere stati infettati allo stesso ritmo dei non fumatori ma essere deceduti prima del ricovero in ospedale. Ma agli autori anche questo “sembra improbabile”. O ancora, potrebbe essere successo che la situazione di emergenza abbia determinato una scarsa raccolta di dettagli sull’anamnesi. Ma anche qui gli autori ammettono di non aver motivo di presumere che nei pazienti mancanti il rapporto fra fumatori e non-fumatori sarebbe diverso e non vi è motivo di ritenere che le informazioni fornite dagli operatori sanitari siano inesatte.
E dunque si fa strada una quarta ipotesi. “Altri – spiega l’articolo – hanno ipotizzato un possibile ruolo del recettore nicotinico dell’acetilcolina (nAChR) nella fisiopatologia di covid-19, che può agire come co-recettore del Sars-cov-2”. Insomma, si ritorna alla possibilità di un ruolo protettivo dall’infezione che in qualche modo la nicotina eserciterebbe. Gli autori ricordano in ogni caso che i fumatori, una volta contratta la malattia, hanno maggiori probabilità di esito più grave. Ma in ogni caso si continua a rilevare il basso numero di fumatori ospedalizzati e la necessità di approfondire la questione. “Sono necessari studi epidemiologici più ampi – conclude infatti l’articolo – per confermare queste osservazioni e determinare la vera associazione tra recente esposizione alla nicotina, rischio di sviluppo di covid-19 e morte”.

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