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Lo scorso anno uno studio condotto da ricercatori canadesi, americani, australiani e inglesi, coordinato da David Hammond dell’Università di Waterloo, in Canada, suonò un campanello di allarme. Il lavoro, intitolato “Prevalence of vaping and smoking among adolescents in Canada, England, and the United States: repeat national cross sectional surveys” vide la luce a giugno, ma i suoi risultati erano così importanti, che si ritenne di farli avere al governo canadese e alla stampa ben sette mesi prima della pubblicazione sul BMJ. “Nel 2017 e 2018 – erano le conclusioni dello studio di Hammond – la prevalenza degli svapatori fra i 16 e i 19 anni in Canada e negli Usa è aumentata, così come quella dei fumatori, con piccoli cambiamenti in Inghilterra”. Insomma, quasi una conferma della teoria che l’e-cigarette introduce al fumo tradizionale. Gli autori, infatti, consigliavano “un attento monitoraggio del mercato del vaping in rapida evoluzione e dei nuovi prodotti a base di nicotina”. Non era vero niente.
A dirlo, con un anno di ritardo, è lo stesso Hammond, che ammette i suoi errori di calcolo. Lo studio originale riportava che fra il 2017 e il 2018 il tasso dei fumatori canadesi nella fascia di età presa in considerazione era aumentata dal 10,7% al 15,5%. Un balzo di quasi cinque punti percentuali, che gli autori giudicavano ovviamente “un aumento statisticamente significativo”. Senonché oggi i ricercatori rivedono quel dato e il 15,5% diventa 10. Cioè fra il 2017 e il 2018 in Canada i giovani fumatori sono diminuiti dello 0,7%, un dato “statisticamente non significativo” ma in leggera flessione e, comunque, molto lontano dalla crescita allarmante sbandierata un anno prima. E, soprattutto, che elimina la relazione fra aumento dell’uso dell’e-cig e aumento dei fumatori.
Ma come è stato possibile? A spiegarlo sono gli autori in un aggiornamento allo studio, pubblicato il 10 luglio scorso. “Al momento della pubblicazione – si legge nella nota – non erano disponibili altre stime nazionali sul Canada per il 2018 e i tassi dei fumatori nella fascia di età 15-19 anni non erano diminuiti fra il 2015 e il 2017, dopo decenni di calo costante”. Quindi sembrerebbe che per il 2018 le conclusioni fossero state tirate, diciamo, a naso. Per fortuna, “dopo la pubblicazione del lavoro – continuano gli autori – Health Canada ha pubblicato i dati della sua indagine nazionale sui minori, il Canadian Student Alcohol and Drug Survey, che non registra un aumento del fumo fra il 2016-17 e il 2018-19”.
A questo punto i ricercatori hanno “ricalibrato” le stime, scoprendo di aver preso fischi per fiaschi e di aver lanciato un allarme senza fondamento. E facendo crollare un altro pilastro della costruzione degli oppositori degli strumenti di riduzione del danno da fumo. Tutto bene quel che finisce bene, dunque? Non tanto. Prima di tutto perché questo tipo di studi e di allarmi hanno una risonanza sia sui media che, a cascata, nell’opinione pubblica fra i legislatori, che le smentite difficilmente raggiungono. In secondo luogo, perché molti lavori scientifici finiscono nelle revisioni, ne indirizzano le conclusioni e molto spesso, quando vengono ritrattati è ormai troppo tardi. E quando si parla di salute pubblica, questo è tutt’altro che rassicurante.