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Sigarette elettroniche, dall’Australia il fallimento del probizionismo

Criminalità, prodotti non controllati e perdite erariali: perché l'approccio australiano crea più danni di quanti ne eviti.

Le politiche restrittive applicate in Australia sulla sigaretta elettronica e i prodotti con nicotina sta creando più danni di quanti ne risolva, causando molte delle conseguenze indesiderate storicamente associate al proibizionismo. È questa la tesi che James Martin della Deakin University e Edward Jegasothy della University of Sidney, entrambe in Australia, sostengono nel commento intitolato “Fanning the flame: analysing the emergence, implications, and challenges of Australia’s de facto war on Nicotine” e pubblicato sulla rivista scientifica Harm Reduction Journal.
Il loro studio esamina concretamente del caso australiano ma può essere di grande interesse per tutti coloro che, in tutto il mondo, coltivano tentazioni proibizionistiche. In Australia, premettono gli autori, si è andato intensificando un approccio iper-normativo, arrivando a quella che è una guerra de facto alla nicotina. Le sigarette di tabacco sono soggette a tasse altissime mentre le sigarette elettroniche non sono ammesse come prodotto di consumo. Dopo molti tentativi tutti fallimentari, la legge entrata in vigore lo scorso 1° ottobre prevede che i prodotti del vaping siano acquistabili esclusivamente da alcune farmacie e in particolari condizioni. L’acquirente deve registrare i suoi dati e i suoi documenti d’identità, sottoporsi a una consulenza del farmacista (spesso a pagamento) in cui viene discussa la sua storia clinica e i precedenti tentativi di smettere di fumare. Il farmacista, infine, fornisce dispositivi solo da una ristretta lista di sigarette elettroniche notificate alla Therapeutic Goods Administration, con una concentrazione massima di nicotina di 20 mg/ml ed esclusivamente nei gusti al tabacco, menta o mentolo.
Questo percorso tortuoso (e quelli precedenti che prevedevano la prescrizione del medico per avere una sigaretta elettronica) hanno spinto i consumatori verso il mercato nero con conseguenze facilmente immaginabili. Quello dei prodotti del vaping, scrivono gli autori, è oggi per grandezza il secondo mercato illegale dopo la cannabis. Ma l’uso di prodotti non controllati e non regolamentati può presentare dei rischi per gli utilizzatori, compreso quello del consumo di nicotina in concentrazioni molto alte. Ma i problemi del modello australiano vanno ben oltre. Il mercato illegale della nicotina è cresciuto rapidamente, creando profitti sempre maggiore e maggiore violenza. Più di 200 incendi dolosi, raccontano Martin e Jegasothy, sono stati collegati ad attività legate al mercato nero, insieme ad omicidi, estorsioni e rapine, motivati dalla guerra per il controllo tra gruppi della criminalità organizzata.
La politica proibizionista sui prodotti con nicotina ha avuto anche un costo in termini economici. Il contrabbando di sigarette elettroniche e di quelle di tabacco ha spinto sempre più consumatori verso il mercato parallelo, facendo crollare le entrate fiscali. I documenti del bilancio del governo, spiegano gli autori, hanno rivelato un deficit di 5 miliardi di dollari nelle entrate delle accise sul tabacco solo nell’ultimo anno finanziario. A fronte di tutto questo, gli autori concludono che l’attuale strategia australiana stia causando più danni di quanti ne eviti.
Secondo Martin e Jegasothy è molto improbabile che i problemi creati dalle politiche probizioniste si possano risolvere con interventi di polizia o rendendo le leggi ancora più restrittive e punitive. C’è, però, un’altra strada che si potrebbe percorrere. “Sosteniamo – concludono infatti gli autori – che una ricalibrazione verso un modello di riduzione del danno, unita a una rivalutazione della tassazione e a un migliore accesso a prodotti con nicotina meno dannosi, potrebbe portare un approccio più equilibrato al controllo della nicotina, allineando gli obiettivi di salute pubblica con una politica sostenibile ed efficace”.

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