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Negozi di sigarette elettroniche aprono alla cannabis legale

La cannabis legale è il business del momento. Spunto di riflessione: è davvero una scelta che può garantire un futuro? O è una tendenza passeggera in attesa di chiarezza normativa?

È la moda del momento. Oltre quattrocento negozi specializzati diffusi su tutto il territorio nazionale più altrettanti punti vendita non esclusivi. E i numeri aumentano di giorno in giorno. La vendita di infiorescenze di cannabis pare essere diventata il nuovo business anche per i rivenditori del vaping. In sei mesi sono state acquistate in tutta Italia 15 tonnellate di fiore di canapa da una ottantina di aziende agricole; nello stesso periodo al pubblico sono stati venduti circa 125 mila barattoli.
Il mercato è dunque in piena espansione, anche se la normativa è ancora indefinita. Le infiorescenze di canapa sono legali se rispettano i limiti di Thc imposti dalla legge, ovvero non superiori allo 0,6 per cento. Una concentrazione che non provoca alcun effetto se non un blando rilassamento, alla pari di una buona camomilla. L’articolo 2 della legge 242 del 2016 stabilisce che la canapa coltivata può essere utilizzata per: produzione di alimenti e di cosmetici esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; fornitura di semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico.; coltivazioni destinate alla pratica del sovescio; materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o diversi prodotti utili per la bioedilizia; coltivazioni finalizzate alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; coltivazioni destinate al florovivaismo.
Ma, nonostante questo, il business è ormai diffuso. Anche la cannabis legale si trova un una sorta di limbo normativo: non esiste alcuna destinazione d’uso sul prodotto così come non esiste una regolamentazione  sulla rete vendita, sia essa fisica o online. Su molte etichette c’è scritto “materiale per uso tecnico”, su altre “germogli a tutela della varietà”. Insomma, cavilli ed escamotage già visti anche nel vaping. Oltretutto le aziende produttrici e distributrici scrivono in evidenza che il prodotto non è atto alla combustione. Eppure si può fumare. È la classica ipocrisia della legge italiana. Più o meno come accade per le cartine lunghe in vedita nelle tabaccherie: nessuno fuma sigarette lunghe ma vengono comprate per fare le canne, quelle sì con erba ad alta concentrazione di Thc.
I negozi di vaping hanno sempre avuto come marchio il sostegno della salute pubblica, nonostante lo scarso interesse delle istituzioni sanitarie. E proprio questo dovrebbe continuare ad essere il leitmotiv della battaglia: vapore non è fumo. È più che comprensibile, quasi auspicabile, che in un momento di enorme difficoltà i negozianti cerchino delle strategie di sopravvivenza. Eppure è opportuno porsi un problema di credibilità nel momento in cui si propone in vendita un prodotto che può essere fumato, può essere arrotolato in una cartina, può essere bruciato e combusto. A questo punto chiedere di essere riconosciuti come fautori della salute pubblica può diventare più difficile. Il commercio, ovviamente, è libero. Si può compravendere ciò che si vuole rimanendo nei limiti della legalità e nel rispetto delle norme. Ma a volte la coerenza e la credibilità dovrebbero prevalere sugli affari, soprattutto se questi offrono una soluzione effimera. Perché c’è da stare certi che, prima o poi, anche in questo ambito Aams interverrà a mettere tutti d’accordo e scrivere le regole.

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