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Il Regno Unito si divide sulla sigaretta elettronica prescritta dal medico

Il confronto è tra chi sostiene la necessità di aiutare i più poveri e chi crede che il fumatore non sia un malato da curare.

Stimolanti spunti di riflessione sulla sigaretta elettronica e sul suo futuro continuano ad arrivare dalle audizioni della Commissione Scienza e Tecnologia della Camera dei comuni. Quest’organo di un ramo del Parlamento britannico, dove lo scorso gennaio l’italiano Riccardo Polosa illustrò la “teoria del toast” , sta facendo un importante lavoro di indagine sul vaping, i suoi benefici per la salute e le strategie migliori per utilizzarlo a vantaggio della salute pubblica. La commissione, come abbiamo visto nei mesi scorsi, sta coinvolgendo nel dibattito tutti i protagonisti del settore fornendo un modello di discussione e delle risposte che non si fermano ai confini del Regno Unito.
Questa volta la discussione ha riguardato la possibilità che le sigarette elettroniche diventino prescrivibili, alla stregua dei farmaci, dal Servizio sanitario nazionale. Fino ad ora sono state prese misure simili, come la concessione di buoni per l’acquisto di ecig da parte dei centri antifumo, ma per prescrivere direttamente una sigaretta elettronica, bisognerebbe che un’azienda si accollasse la trafila per la registrazione di un farmaco presso la Mhra, l’agenzia regolatrice inglese dei farmaci. Ma, nonostante gli inviti, nessun produttore britannico ha finora ritenuto di farlo.
Il motivo lo hanno forse spiegato proprio durante l’audizione in commissione a Westminster Fraser Cropper, presidente della Independent British Vape Trade Association e John Dunne, direttore della UK Vaping Industry Association. Entrambi non sono convinti che trattare la sigaretta elettronica come un farmaco sia la soluzione. Secondo Cropper, infatti, dare la responsabilità della prescrizione e della scelta al medico di base, snaturerebbe quella che è stata “un’innovazione guidata dal consumatore”, farebbe sentire il vaper deresponsabilizzato, meno coinvolto e meno artefice della sua scelta. Non solo, aggiunge Fraser, questo processo potrebbe limitare la varietà dei prodotti e quindi la scelta del consumatore. E, in definitiva, limitare la diffusione del vaping fra i fumatori, invece di incoraggiarla. Anche se poi ammette che la prescrizione potrebbe essere utile per garantire l’accesso ai prodotti ai fumatori economicamente più disagiati.
Gli fa eco Dunne, evidenziando un concetto che spesso sfugge ai professionisti della salute. “La maggior parte dei fumatori – spiega – non si sentono malati. Non è una malattia, è una dipendenza da una sostanza”. Il successo dell’ecig, insiste Dunne, sta nel suo essere “un’innovazione guidata dal consumatore, che non è un farmaco”. Dunque, anche secondo il direttore della Ukvia, “spingere sulla strada della medicalizzazione avrebbe un effetto deleterio”.
Quello che le associazioni dei produttori britannici chiedono al Servizio sanitario nazionale è un’agenda condivisa sulla salute pubblica, un messaggio netto ed inequivocabile da parte delle istituzioni a favore del vaping come strumento di riduzione del danno. “Se questo significa che, per comunicare con chiarezza quel messaggio, alcuni prodotti dovranno essere prescrivibili dal Servizio sanitario – concede Croper – noi ci saremo”. Insomma, il timore delle aziende – oltre a quello legittimo di vedere restringersi il proprio volume di affari – è quello che un’eccessiva medicalizzazione della sigaretta elettronica faccia perdere allo strumento quell’appeal che lo ha reso vincente per tanti fumatori, che non avrebbero mai messo piede in un centro antifumo. Un dibattito sicuramente molto interessante.

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