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Fumo e sigarette elettroniche: l’Oms tra contraddizioni e scelte morali

Alcuni dei governi aderenti alla Convenzione quadro per il controllo del tabacco hanno interessi in industrie del tabacco che si potrebbero convertire in prodotti di riduzione del danno.

Si intitola “Contradictions and Conflicts”, contraddizioni e conflitti, il rapporto pubblicato dalla Just Managing consulting di Daniel Malan, docente di Business ethics al Trinity College di Dublino, e realizzato grazie a un finanziamento della Foundation for a Smoke-Free World. Il sottotitolo chiarisce subito di quali contraddizioni si parla: Aziende del tabacco statali e la Convenzione quadro per il controllo del tabacco (Fctc) dell’Organizzazione mondiale di sanità. Malan introduce l’argomento sottolineando come fra il 2000 e il 2019 il consumo mondiale di tabacco sia diminuito di meno di un quarto di punto percentuale all’anno. E questo, nonostante l’istituzione nel 2003 dell’Fctc, che ha come principale obiettivo quello di “proteggere le generazioni presenti e future dalle devastanti conseguenze sanitarie, sociali, ambientali ed economiche del consumo e dell’esposizione al tabacco”.
Uno scopo più che nobile e, infatti, sono 182 le parti che hanno aderito alla Convenzione, facendone un trattato davvero globale (seppure con l’assenza degli Stati Uniti e di qualche altro Paese sparso per il globo). Senonché, segnala l’autore, alcuni dei governi che hanno ratificato l’Fctc e dovrebbero impegnarsi per ridurre il consumo di tabacco, possiedono anche, in tutto o in parte, l’industria del tabacco. In tutto il mondo 18 Paesi possiedono una quota pari almeno al 10% di almeno un’azienda del tabacco. Di questi, 17 sono all’interno del Fctc e 8 hanno addirittura il 100% del settore. Si tratta della Cina, la cui China National Tobacco Corporation controlla circa il 44% del mercato mondiale delle sigarette, la Tunisia, il Libano, l’Iraq, la Sirian, l’Iran, il Vietnam, la Tailandia. In tutti questi Stati il tabacco è, appunto, un affare di Stato nel senso che è gestito completamente dai governi.
Partecipazioni meno massicce, ma sempre significative, si ritrovano in altri nove Paesi che possiedono percentuali dell’industria del tabacco che vanno dal 91 al 13% e sono: Moldavia, Cuba, Egitto, Algeria, Laos, Yemen, Giappone, India e Bangladesh. Malan ravvede in questo una contraddizione evidente: “Da una parte alcuni governi si sono impegnati a combattere l’industria del tabacco, ma dall’altra ne fanno parte e ne traggono vantaggi”. Un conflitto etico non da poco, visto che la Convenzione prevede che “stabilendo e implementando le loro politiche di salute pubblica in materia di controllo del tabacco, le parti devono proteggere queste politiche da interessi commerciali o altri interessi dell’industria del tabacco”. Ma quando questi interessi sono rappresentati dallo stesso governo, che attua (o dovrebbe attuare) le misure di dissuasione dal fumo, il cortocircuito è dietro l’angolo. Un conflitto di cui l’Fctc finge di non accorgersi, ma che emerge bene, per esempio, dal Report sul tabacco del 2019, che cita molti noti produttori di sigarette, ma mai la più grande azienda del tabacco del mondo: appunto China National Tobacco Corporation.
L’autore non cerca di semplificare il problema e lo affronta, anzi, in due chiavi, quella economica e quella morale. Sotto il primo aspetto, per stabilire esiste un vantaggio commerciale per i governi che possiedono aziende del tabacco, servirebbe una valutazione attenta dei guadagni (in termini di profitti, tasse e posti di lavoro) e delle perdite in termini di costi sanitari. Non è un bilancio facile di tirare, perché mentre i primi sono immediati, le seconde sono più complesse da quantificare. Dal punto di vista morale, invece, vi sono pochi dubbi: “Investendo nel tabacco – afferma Malan – i governi diventano complici dell’industria con la peggiore reputazione fra tutte quelle legali”.
La via d’uscita da questo dilemma etico è meno banale di quello che sembri. Limitarsi a chiudere le aziende statali del tabacco potrebbe avere conseguenze pesanti in termini di perdita di occupazione e di introiti. Privatizzarle potrebbe addirittura renderle più efficienti e causare maggiore danno alla salute pubblica. Ma c’è un’altra strada che l’autore suggerisce, quella degli strumenti di riduzione del danno. “Oggi – spiega – esistono molti strumenti elettronici per somministrare la nicotina (per esempio le sigarette elettroniche) e la scienza stima che questi prodotti possano ridurre il danno del fumo del 90%”. Per questo, secondo Malan, l’opzione più pragmatica per quei governi che producono sigarette è di trasformare le aziende “concentrandosi sui prodotti a danno ridotto e, al contempo, mettendo in atto politiche e interventi di controllo del tabacco più tradizionali”. E a beneficiarne non sarebbero solo i Paesi in questione, ma anche l’Fctc che risolverebbe il grande conflitto che si porta dentro.

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