Testata giornalistica destinata agli operatori del settore delle sigarette elettroniche - Registrazione Tribunale di Roma: 234/2015; Registro Operatori della Comunicazione: 29956/2017 - Best Edizioni srls, viale Bruno Buozzi 47, Roma - Partita Iva 14153851002

Sigarette elettroniche: l’Agenzia Dogane e Monopoli non conosce ma delibera

La nuova normativa, mutuata in gran parte dal mondo del tabacco, dimostra ancora una scarsa conoscenza del settore del vaping e causerà molte difficoltà a tutti gli attori della filiera, divisi fra la necessità del rispetto del regolamento e quella di continuare a “fare impresa”.

Non trascorre anno che non mi trovi a scrivere un articolo su Sigmagazine in merito all’ennesima riforma del settore del fumo elettronico. Sì, si può definitivamente considerare un settore ad elevata proliferazione normativa; circostanza che, tenendo a mente la ancora giovane età del mercato di riferimento, ma soprattutto la perdurante mancanza di conoscenza del medesimo da parte delle istituzioni, dà conto delle complessità che tutti i giorni debbono affrontare gli operatori della filiera, dai produttori, ai distributori, ai negozianti.
Non voglio soffermarmi in questo breve testo sui dettagli della nuova normativa (che è integralmente pubblicata infra) che è già oggetto di ampio dibattito tra operatori di settore; mi preme invece – senza per questo abbandonare il politically correct (non me ne voglia l’Agenzia Dogane e Monopoli con la quale, pur nel rispetto reciproco, sono tanti gli scontri, giudiziali e non) – rappresentare con alcuni esempi il perché, a mio sommesso avviso, l’autorità ha dimostrato, ancora una volta, di non conoscere a pieno il mondo che dovrebbe regolare.
In primo luogo, l’Agenzia non conosce la filiera di settore. E così, sembra incredibile, la Determinazione direttoriale depositi fiscali (Prot. 83685/RU – i.e. la determinazione che sostituisce il “famigerato” Decreto ministeriale MEF 29 dicembre 2014) ignora completamente il fatto che, tra la categoria dei produttori e la categoria dei negozi autorizzati, vi è l’interregno dei “distributori” (invero anch’essi titolari di deposito fiscale e quindi ben conosciuti ad Adm). Tale circostanza è evidente, sol che si tenga a mente che dei distributori non vi è traccia in alcuna direttoriale e che le norme dettate dalla Determinazione direttoriale contrassegni per lo smaltimento dei prodotti giacenti in deposito al 31 marzo 2021 (e non muniti di tassello fiscale) sono evidentemente tarate – per come interpretate da Adm – sui soli depositi fiscali che siano anche produttori e stanno causando non poche difficoltà operative a chi rivende un prodotto acquistato da terzi.
Ma non solo. Le medesime norme transitorie introducono infatti nel settore un concetto “innovativo” di tracciabilità, prevedendo che, unitamente al prodotto non ancora munito di contrassegno, debbano circolare dei documenti contenenti l’indicazione del relativo “numero di lotto” e della relativa “data di produzione”. La ratio della norma è chiara: l’Agenzia necessita che, in caso di controllo, si possa verificare che i beni in questione siano stati effettivamente prodotti in data anteriore al 31 marzo 2021. Tale ratio, tuttavia, si scontra inevitabilmente con la realtà di una filiera produttiva che, ad oggi, non ha implementato (perché non vi è alcun obbligo in tal senso) alcun sistema di tracciabilità dei lotti (al di fuori della fase di produzione) e che, conseguentemente, deve, in maniera affannosa, “inventare” una soluzione che contemperi la necessità del rispetto della norma regolamentare con la necessità di continuare a “fare impresa”. Non da meno, ovviamente, le previsioni della Determinazione direttoriale avente ad oggetto i negozi autorizzati (nonché le farmacie e le parafarmacie). Una su tutte, la previsione che contempla che, coloro che abbiano rinunciato all’autorizzazione alla commercializzazione di Pli, non possano chiederla nuovamente per un periodo di ben cinque anni. La norma è evidentemente mutuata dal regime delle tabaccherie, ma non tiene conto che, con riferimento a queste ultime, il titolare ha un obbligo di gestione personale dell’esercizio – che è di fatto una concessione di vendita di beni di monopolio statale – che, in quanto tale, non consente la possibilità di detenere contemporaneamente due o più tabaccherie. Ebbene, nulla di più diverso dagli esercizi di vicinato (o dalle farmacie e parafarmacie) autorizzati alla rivendita di Pli che, al contrario:
i) non sono oggetto di alcuna concessione statale ma di una mera autorizzazione;
ii) non trattano beni in regime di monopolio ma beni in regime di libero mercato, pur soggetti ad un’imposta di consumo;
iii) non scontano alcuna limitazione in termini di titolarità (è infatti ben possibile – e frequente nel mercato – che un unico soggetto giuridico sia proprietario di ben più di un negozio di vicinato).
Quale, dunque, la finalità di questa previsione? Ma, soprattutto, come applicare tale norma alle diverse realtà societarie che, nella mutevolezza del mercato (soprattutto in fase di pandemia), ben possono trovarsi a dover chiudere – ad esempio – uno (quello meno redditizio o addirittura in perdita) dei punti vendita gestiti, pur volendo mantenere gli altri? È forse necessario ipotizzare operazioni societarie tese ad evitare problemi di decadenza? Ci troviamo davvero costretti ad immaginare che la norma sia stata costruita per essere “legittimamente disapplicata” da chi può permettersi i costi di un’operazione straordinaria propedeutica ad una successiva chiusura?
Sulla stessa scia dell’impropria equiparazione della concessione del tabaccaio con l’autorizzazione della rivendita di Pli si pone poi l’ulteriore previsione che restringe il novero di soggetti che possono essere titolari di un’autorizzazione alla rivendita di Pli, spingendosi finanche ad escludere, oltre i soggetti condannati per la commissione di reati espressamente individuati, anche coloro che “banalmente” abbiano pendenze definitivamente accertate con il fisco per l’”iperbolica” somma di 5.000 euro! Senza tacere della previsione (incredibilmente già fatta valere dall’Amministrazione) che, ponendosi del tutto fuori dai tempi moderni, esclude che i negozi autorizzati possano essere nella titolarità o nella gestione di soggetti che non siano cittadini comunitari. Ed infatti, al netto della irragionevolezza di tale disposizione, che sembra porsi addirittura in contrasto con il dettato costituzionale (non apparendo sussistente alcun interesse statale da tutelare che giustifichi tale limitazione), la medesima realizza altresì un vero e proprio “esproprio” in danno di coloro che, “pur” extracomunitari, hanno attività già da tempo avviate e funzionanti. Possibile che l’Agenzia non sia a conoscenza d tutto ciò?
Ecco, è qui lo sconforto: ci troviamo in un mondo dove il regolatore (ancora) non conosce adeguatamente l’attività regolata. L’invito, quindi, è, alla filiera, di continuare a farsi parte attiva nel dialogo con l’istituzione; a quest’ultima, invece, di farsi parte diligente e aperta alla comprensione (oltre che all’ascolto) delle istanze degli operatori.

L’autore: Alberto Gava, avvocato del foro di Roma, esperto del settore fumo elettronico, partner Utopia Affari legali e societari.

(tratto da Sigmagazine #26 maggio-giugno 2021)

 

 

Articoli correlati