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Nella scarsità di notizie provenienti dalla Cop9 dell’Oms sul controllo del tabacco, sono state le Filippine a prendersi la scena. Nella giornata di ieri nella Conferenza si discuteva, a quanto si legge dagli scarni bollettini, di chiedere maggiori finanziamenti ai Paesi aderenti, chiedere di inserire il tobacco control nei piani di recovery post pandemia (una cosa su cui hanno molto insistito anche il presidente della Cop e il capo del Segretariato dell’Fctc durante i loro discorsi di apertura), sulla proposta di istituire un fondo di investimenti che possa ricevere “input finanziari” da fonti pubbliche o private che soddisfino i requisiti dell’articolo 5.3 del Trattato (cioè che non abbiano legami con l’industria del tabacco).
Intanto però rimbalzava da un computer all’altro il video del Ministro degli esteri delle Filippine, pubblicato sul canale Youtube del Segretariato dell’Fctc, insieme alle dichiarazioni pre-Cop9 di leader di altri Paesi. Parlando dei prodotti a rischio ridotto come le sigarette elettroniche, il ministro Teodoro Locsin Jr. ha dichiarato che “il divieto totale non viene assolutamente preso in considerazione, né la possibilità di farli scomparire attraverso una tassazione estrema”. “I divieti – ha continuato – non farebbero che spingere gli operatori nell’illegalità, favorendo il contrabbando. Questo farebbe arricchire ancora di più quei Paesi che hanno il monopolio di Stato sul tabacco. Perché dovremmo permetterlo?”.
Ma la divaricazione con la narrativa dell’Oms non si è fermata lì. Mettendo i piedi nel piatto, Locsin ha affermato quello che tutti sanno. E cioè che il tabacco una importante fonte di reddito per i governi. “Attraverso la sua tassazione – ha spiegato – finanziamo la riduzione della povertà, l’assistenza sanitaria universale, i programmi di recovery post covid-19 e le più importanti attività dello Stato”. Ma il tabacco, ha continuato, fa male alla salute e per questo l’industria ha creato dei prodotti che “danno la stessa soddisfazione del fumo ma con molti meno danni”. “Sulla riduzione del danno – ha poi continuato – siamo per la regolamentazione e per una giusta tassazione”.
Come se non bastasse, il Ministro degli esteri ha concluso dicendo che per affrontare queste questioni complesse è necessario la partecipazione attiva di tutte le parti e una consultazione inclusiva con tutti gli stakeholders. “E intendiamo tutti”, ha sottolineato con fermezza. Parole e toni di una schiettezza, quelli di Teodoro Locsin, del tutto inconsueta in questo tipo di consessi. Tanto che il Ministero della Salute delle Filippine, nella serata di ieri, ha diffuso un comunicato, dissociandosi dalle dichiarazioni della delegazione del proprio Paese alla Cop9 e professando aderenza ai principi della Convenzione quadro sul controllo del tabacco.
Ma attenzione, non sembra proprio che le parole di Locsin siano state una boutade. A suo sostegno, infatti sono prontamente scesi in campo il Ministro del lavoro Silvestre Bello III, il vice presidente della Camera Deogracias Victor Savellano e diversi parlamentari. “Sosteniamo la delegazione filippina alla nona Conferenza delle parti guidata dal Ministro Locsin – ha dichiarato Bello al quotidiano Manila Bullettin – per aver chiesto per un processo decisionale inclusivo e partecipativo nella creazione di raccomandazioni politiche globali. L’approccio al controllo del tabacco non può essere unidimensionale”.
Di certo c’è che le Filippine rimangono un Paese da tenere sotto osservazione. E non solo perché è fra i pochi Paesi asiatici a guardare con interesse alla riduzione del danno da tabacco, rappresentando un’eccezione nel panorama proibizionista della regione. Ma anche perché è proprio qui che poco più di un anno fa l’Agenzia regolatoria locale fu costretta ad ammettere di aver accettato finanziamenti da due organizzazioni americane riconducibili a Michael Bloomberg e strenuamente opposte alla riduzione del danno e alle sigarette elettroniche. Questo accadeva proprio mentre l’Agenzia stava scrivendo le linee guida sui prodotti del vaping e a rischio ridotto. Ed è stata proprio questa vicenda a squarciare il velo sul cosiddetto “colonialismo filantropico” del miliardario americano.