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La case farmaceutiche all’assalto della sigaretta elettronica

Dopo il tentativo andato a vuoto nel 2013, l’assalto al nuovo dispositivo antifumo è ripartito in vista della revisione della Direttiva europea sul tabacco e prodotti liquidi da inalazione.

È l’industria farmaceutica il vero pericolo per la sigaretta elettronica. Dopo il tentativo andato a vuoto nel 2013, l’assalto al nuovo dispositivo antifumo è ripartito in vista della revisione della Direttiva europea sul tabacco e prodotti liquidi da inalazione. I produttori di cerotti, nicotina spray e chewing gum alla nicotina negli ultimi sei anni hanno visto un tracollo delle vendite. Si stima che soltanto nel Regno Unito abbiano perso circa tre quarti del fatturato, tutto invece a vantaggio della sigaretta elettronica che ha visto impennare la sua diffusione di oltre il 700 per cento. Uno studio della Fondazione Smoke Free World, un’organizzazione anti-fumo di New York sostenuta da Philip Morris International, ha rilevato che le vendite di prodotti del vaping sono aumentate di circa il 37 per cento nel 2017; quelle di prodotti farmaceutici di nicotina solo del 2,5 per cento.
Secondo Big Pharma, le aziende del vaping starebbero facendo il doppio gioco: da un lato sostenendo la teoria del libero mercato e difendendo il vaping come un prodotto di largo consumo, dall’altro veicolando un messaggio di salute pubblica che dovrebbe essere appannaggio soltanto dei medicinali. Un alto referente della multinazionale Johnson & Johnson ha recentemente dichiarato che “se vengono fatte affermazioni terapeutiche o rivendicazioni di cessazione del tabacco, dovrebbero essere soggette a un quadro normativo medico”. Un concetto che sintetizza alla perfezione la linea perseguita dalle case farmaceutiche. Aggregando la sigaretta elettronica ai prodotti medicali otterrebbero un doppio enorme regalo: distribuzione e vendita in regime protetto perché nessuno può entrare in farmacia senza il loro consenso, l’azzeramento della concorrenza con conseguente ipotetica produzione in house.
L’Organizzazione mondiale della sanità, che accetta donazioni da aziende private, combatte da sempre la diffusione della sigaretta elettronica. Di riflesso, anche le maggior parte delle istituzioni sanitarie nazionali sostiene la posizione della cessazione totale delle dipendenze attraverso la guida medica e l’uso di farmaci e prodotti medicali come lo spray e il chewing gum. Prodotti alternativi che, pur contenendo nicotina, possono essere pubblicizzato sia in radio che in tv, a differenza dei liquidi da inalazione. Ma nonostante questo enorme vantaggio mediatico, il passaparola tra i consumatori ha permesso a tutto il mondo di verificare e conoscere l’efficacia della sigaretta elettronica come principale strumento per smettere di fumare.
L’Italia, assoggettata alle pressioni dell’Oms, sin da subito si è dimostrata restìa a riconoscere la funzionalità della sigaretta elettronica. Soltanto uno sparuto gruppo di medici e ricercatori pionieri ha tentato di sollevare una voce fuori dal coro. Ma da quel momento sono stati esiliati in una remota isola del silenzio e del mancato riconoscimento istituzionale e professionale. L’autorità sanitaria nazionale è passata dalla tesi del “mancano ricerche scientifiche” alla tesi del “mancano ricerche scientifiche indipendenti”. Ma chi garantisce l’indipendenza? Il solo fatto di essere un dipendente del sistema sanitario pubblico è sufficiente a garantire l’equidistanza? Certamente no. O, per ribaltare il punto di vista, non più di un ricercatore privato. Una ricerca, uno studio, una analisi dovrebbero essere valutate esaminando di volta in volta la metodologia, la replicabilità, la fondatezza. Giudicare l’esito o un risultato scientifico in base al nome del ricercatore o del finanziatore contrasta con l’etica professionale. Se così fosse, significherebbe che la bravura e la competenza di un medico è legata al nome del proprio datore di lavoro. Nel caso della ricerca applicata al vaping si avrebbero ai due estremi il dipendente statale e il ricercatore assunto da una multinazionale del tabacco. Dove si collocano però i ricercatori delle aziende farmaceutiche non è dato sapersi.
La comunità scientifica sostenitrice della sigaretta elettronica difende la tesi della riduzione del rischio: è cioè in grado di aiutare i fumatori a superare la dipendenza psicologica dalle sigarette e offre un’opzione non medica per chi vuole smettere ma non vuole essere considerato come un paziente da curare.
Le percentuali di successo per le persone che hanno smesso di fumare in Inghilterra nella prima metà del 2017, come dichiarato da Public Health England, “erano ai massimi livelli e per la prima volta è stata osservata la parità tra diversi gruppi socio-economici”. Inoltre, sempre la stessa autorità, ha stimato che la sigaretta elettronica abbatte del 95 per cento i danni causati dal tabacco e per questo nel Regno Unito viene utilizzata come strumento principale per far smettere di fumare.

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