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Lotta al fumo: la miope strategia dell’Istituto superiore di sanità

Siamo entrati in possesso di una nota diffusa qualche giorno fa da alti dirigenti dell'Iss rivolta a tutte le società e associazioni mediche scientifiche.

Una comunicazione mandata a tutti gli interlocutori scientifici e istituzionali: dagli assessorati regionali, alle associazioni e società dei medici di famiglia, dei dentisti, dei chirurghi, degli odontoiatri, sino alla Società nazionale di aggiornamento per il medico e, ovviamente, non poteva mancare la Società italiana di tabaccologia. Firmata da Giovanni Rezza e Rossana Ugenti, alti dirigenti dell’Istituto superiore di sanità, la missiva è datata 23 novembre 2020, ovvero un giorno prima di quando il quotidiano Il Riformista ha messo a timone l’articolo di denuncia riguardo i presunti finanziamenti di Philip Morris alla Casaleggio Associati.
Dopo aver scritto un lungo preambolo, l’Istituto superiore di sanità chiede a tutti i destinatari di impegnarsi “a garantire l’indipendenza dalle compagnie del tabacco in sedi di dibattito scientifico, e a condurre attività di advocacy affinché aumenti la consapevolezza delle conseguenze dell’ingerenza dell’industria del tabacco e dell’importanza di improntare le scelte preventive e terapeutiche esclusivamente sulla base di consolidate evidenze scientifiche, nell’interesse del singolo individuo e della collettività”.
Ma perché la sanità pubblica italiana è tanto restìa a riconoscere le potenzialità degli strumenti elettronici come ausilio per smettere di fumare o diminuire il consumo di tabacco? Perché, a detta dell’Iss, allo stato attuale delle evidenze la strategia di salute pubblica “mira invece alla disassuefazione dal fumo e dall’utilizzo di prodotti del tabacco o contenenti nicotina”. E aggiunge: “Evidenze di letteratura indicano che i dispositivi che rilasciano nicotina, come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato, possono determinare dipendenza da nicotina come i prodotti tradizionali”. È ovvio che se un dispositivo rilascia nicotina questo può creare dipendenza. Ma se la dipendenza precedente, cioè quella causata dal fumo di sigaretta, è più pericolosa allora bisognerebbe guardare il bicchiere mezzo pieno: assumere la nicotina attraverso la vaporizzazione è un metodo meno dannoso perché evita la produzione dei cancerogeni derivanti dalla combustione. Nessuno sostiene che l’e-cig e i riscaldatori siano prodotti salutari e salutistici, anzi. Però indubbiamente consentono al fumatore di “alleggerire” il carico tossico introdotto nel corpo e nei polmoni.
Quasi al fondo della comunicazione, poi, emerge il vero punto di vista dell’Istituto superiore di sanità. La sigaretta elettronica non può essere riconosciuta sino a quando non è sotto l’egida dell’Aifa. E, di riflesso, delle multinazionali del farmaco. “È necessario evidenziare che, recentemente, numerosi eventi o convegni organizzati in Italia da alcune associazioni o Società scientifiche, promossi da Istituzioni regionali e da Ordini professionali, hanno ricevuto contributi finanziari da parte di industrie del tabacco e hanno incluso nei programmi scientifici interventi da parte di esponenti delle stesse industrie, a supporto della cosiddetta strategia di “riduzione del danno”, che anche nell’ambito di un rapporto individuale medico-paziente non può essere ritenuta un valido approccio clinico, essendo disponibili approcci terapeutici anche farmacologici di provata efficacia”.
La nota, poi, fa esplicito riferimento alla richiesta fatta da Philip Morris di vedersi – come accaduto negli Stati Uniti – riconosciuto il proprio riscaldatore come strumento a rischio modificato. L’Iss puntualizza che  “la valutazione effettuata secondo la normativa vigente dall’Istituto Superiore di Sanità su un prodotto di tabacco riscaldato, su istanza dell’Azienda produttrice (Philip Morris) ha evidenziato che non sia possibile, allo stato attuale e sulla base della documentazione fornita dal proponente, riconoscere la riduzione delle sostanze tossiche, né di stabilire il potenziale di riduzione del rischio del prodotto in esame rispetto ai prodotti da combustione, a parità di condizioni di utilizzo”. Non è dunque chiaro se una azienda di produzione – sia essa di e-cig o di riscaldatore – debba fornire le prove sulla minor tossicità oppure spetti al massimo organismo di controllo sanitario nazionale, l’Istituto superiore di sanità appunto. Prima o poi bisognerà uscire da questo ingarbugliato giro di parole: viene detto che il prodotto è ancora troppo giovane perché possano esistere studi scientifici in grado di esaminarlo. Ma, almeno per quanto riguarda la sigaretta elettronica, è una frase che si va ripetendo ormai da 10 anni. È altresì vero che le istituzioni sanitarie non prendono in considerazione gli studi commissionati dalle aziende del tabacco e del vaping  perché ritenuti poco credibili. Così dicendo, però, si offende una categoria di ricercatori e di lavoratori che hanno scelto di impegnarsi nel settore privato, mettendosi in gioco e non coprendosi sotto il paracadute dello stipendio fisso mensile, garantito e intoccabile. Oltretutto, se lo studio ricalca il principio di ripetibilità e verosimiglianza dovrebbe, a prescindere da chi lo ha effettuato, esser preso per buono. O, semmai, smentito. Ma non certamente rifiutato per partito preso. E allora, visto che la sanità pubblica dovrebbe essere super partes (e ad essa ci fidiamo e ci affidiamo) auspichiamo che al più presto vengano condotte ricerche comparative sulle tossicità sprigionate dalla combustione del tabacco, dal riscaldamento del tabacco e dalla vaporizzazione di un liquido, in condizioni credibili e verosimili.
Nel frattempo, però, i dirigenti e i medici dell’Iss e degli organismi ad essi collegati dovrebbero sospendere quantomeno la loro partecipazione e il loro sostegno alle aziende multinazionali del farmaco. Il discorso, d’altronde, è lo stesso: chi garantisce l’imparzialità della ricerca? Chi assicura il paziente che un determinato farmaco venga davvero prescritto per necessità sanitaria?
Non vogliamo pensare male. Ma l’etica deontologica e il rigore scientifico dovrebbero valere sempre. A prescindere se l’interlocutore vesta il camice bianco o il grembiule da coltivatore.

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