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Revisione: difetti sperimentali negli studi sui metalli nelle sigarette elettroniche

Secondo due scienziati, gran parte della ricerca in questo campo presenta errori metodologici che ne invalidano i risultati.

Gli studi di laboratorio che rilevano la presenza di composti metallici nell’aerosol delle sigarette elettroniche, che verrebbero inalati dagli utilizzatori, presentano difetti sperimentali che ne invalidano i risultati. È questa la conclusione a cui giungono Roberto Sussman dell’Istituto di scienze nucleari della National Autonomous University of Mexico e Sebastien Soulet della francese Ingesciences, autori di una revisione di studi intitolata “A Critical Review of Recent Literature on Metal Contents in E-Cigarette Aerosol” e pubblicata su Toxics.
Nel loro lavoro, i due autori hanno operato una revisione critica degli studi di laboratorio pubblicati dopo il 2017 sul contenuto di metalli negli aerosol di sigaretta elettronica, concentrandosi sulla coerenza tra il loro design sperimentale, l’utilizzo del dispositivo nella vita reale e l’appropriata valutazione dei rischi di esposizione. E hanno trovato molte cose che non andavano. Secondo Sussman e Soulet, infatti, tutti gli esperimenti che riportavano livelli superiori ai marcatori tossicologici per alcuni metalli (ad esempio nichel, piombo, rame e manganese) avevano dei difetti sperimentali.
Il primo degli errori ricorrenti riguardava gli atomizzatori sub-ohm ad alta potenza. Questi venivano testati seguendo dei protocolli (il test Coreca o simili), i cui flussi d’aria e i volumi dei puff sono concepiti per dispositivi a bassa potenza e appropriati solo per questi. “Questa sperimentazione – spiegano gli autori – comporta necessariamente condizioni di surriscaldamento che favoriscono la produzione di sostanze tossiche e generano aerosol che sono verosimilmente repellenti per gli utilizzatori umani”. Insomma, le sigarette elettroniche venivano riscaldate a tal punto da creare il classico “tiro a secco”, insostenibile per qualsiasi svapatore, e dunque non si riproducevano le normali condizioni d’uso della vita reale.
Ma i difetti riscontrati non riguardano solo i dispositivi ad alta potenza. In molti esperimenti, continua la revisione, sono stati riscontrati calcoli errati dei livelli esposizione dai risultati sperimentali. Oppure sono stati utilizzati atomizzatori e pod acquisiti mesi o addirittura anni prima degli esperimenti e questo non consente di poter escludere effetti di corrosione degli strumenti. O ancora molti studi non divulgavano informazioni importanti sulle caratteristiche delle pod e dei tank usati, sulla metodologia sperimentale e sui risultati che ne derivano. Questo non solo ostacola l’interpretazione dei risultati, ma impedisce la possibilità di replicare gli studi che, come noto, è uno dei requisiti principali della ricerca scientifica. Non è un caso, continuano gli autori, che i dispositivi a bassa potenza testati senza questi errori abbiano prodotto livelli di esposizione ai metalli ben al di sotto dei severi marcatori tossicologici di riferimento.
Insomma, i risultati di questa revisione, oltre a mettere in dubbio molti studi, evidenziano la necessità urgente di aggiornare gli attuali standard di laboratorio, creati per i primi dispositivi e chiaramente inappropriati per testare in modo efficiente l’ampia diversità dei dispositivi attualmente disponibili. I nuovi standard devono essere in grado di riflettere l’uso reale dei dispositivi per il vaping e conformarsi alle specifiche indicate dai produttori. “Uno standard aggiornato – concludono gli autori – non solo sarebbe utile per evitare alcune delle carenze che abbiamo esaminato negli studi, ma sarebbe estremamente vantaggioso per tutte le parti interessate: consumatori, autorità di regolamentazione, operatori sanitari, governi e industrie del vaping e del tabacco”.

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