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Ecco perché molti studi contro la sigaretta elettronica sono inaffidabili

Il professore Brad Rodu dimostra che oltre il 90% delle patologie era stata diagnosticata prima che i partecipanti iniziassero a usare l'e-cig

Ancora due uomini di scienza si occupano degli errori metodologici contenuti in molti studi sulla sigaretta elettronica con il risultato di invalidarne i risultati, spesso invece sbandierati nei comunicati stampa che arrivano alle redazioni. Dopo Roberto Sussmann e Sebastien Soulet, che hanno fatto le pulci ai test di laboratorio che quantificano i sottoprodotti organici potenzialmente tossici nell’aerosol delle e-cig, e Riccardo Polosa e Konstantinos Farsalinos, che hanno puntato il dito sulle lacune del processo di peer reviewing delle riviste scientifiche, è la volta di Brad Rodu e Nantaporn Plurphanswat. I due, entrambi del James Graham Brown Cancer Center della University of Louisville, negli Usa, alla fine del mese scorso hanno pubblicato una lettera su Internal Emergency Medicine, intitolata “Cross-sectional e-cigarette studies are unreliable without timing of exposure and disease diagnosis”.
Nel mirino di Rodu e Plurphanswat vi sono, dunque, quegli studi – e ne abbiamo visti molti negli ultimi anni – che hanno rilevato un’associazione fra l’uso della sigaretta elettronica e malattie notoriamente causate dal fumo (asma, Bpco, enfisema, bronchite cronica, ictus, insufficienza cardiaca congestizia, infarto, pre-diabete e ipertensione), ma non contengono alcuna informazione su quando i partecipanti hanno iniziato a svapare e fumare, né su quando è stata loro diagnosticata per la prima volta la malattia. Questo accade anche – ma non solo – perché gran parte degli studi utilizza i dati trasversali di tre grandi indagini nazionali: il National Health Interview Survey (Nhis), il Behavioral Risk Factor Surveillance Survey (Brfss) e il Population Assessment of Tobacco and Health Survey (Path). I primi due non contengono informazioni sull’iniziazione al fumo o al vaping dei partecipanti né sulla diagnosi della malattia. Il terzo sì, ma sono dati spesso e volentieri ignorati.
Rodu e Plurphanswat hanno usato proprio i dati della prima fase del Path da settembre 2013 a dicembre 2014 riguardanti oltre 32 mila persone, concentrandosi su Bpco, enfisema, infarto e ictus. E hanno scoperto che il 97% dei partecipanti aveva avuto una diagnosi di Bpco dopo aver iniziato a fumare regolarmente. Lo stesso vale per il 96% dei casi di enfisema, il 98% degli infarti e il 93% degli ictus. Nella maggior parte dei casi, questo era accaduto anche decenni prima che queste persone passassero all’e-cigarette. Inoltre, notano gli autori, la maggior parte dei partecipanti che avevano la stessa età quando ha avuto diagnosi di malattia e quando hanno iniziato a svapare, erano fumatori abituali prima di passare a vaping. Questo, spiegano “indica una potenziale associazione inversa tra l’uso di sigarette elettroniche e queste malattie”. In altre parole, probabilmente questi fumatori sono passati all’e-cig proprio perché era stata loro diagnosticata una malattia fumo-correlata.
Gli studi basati su dati trasversali senza informazioni sull’età di inizio della sigaretta elettronica e sull’età della diagnosi – concludono gli autori – invariabilmente sopravvalutano le associazioni includendo casi che sono stati diagnosticati prima dell’esposizione alla sigaretta elettronica”. Conclusioni che non possono non far venire in mente un caso di ritrattazione di studi che ebbe proprio Brad Rodu fra i suoi protagonisti. Nel giugno del 2019 il Journal of American Heart Association pubblicò uno studio a firma di Dharma Bhatta e Stanton Glantz (acerrimo nemico del vaping) che metteva in relazione l’uso della sigaretta elettronica con l’aumento di rischio di infarto del miocardio, concludendo che fosse simile a quello del fumo tradizionale. Il lavoro ebbe vasta risonanza sui media e addirittura venne citato in alcuni documenti dell’Organizzazione mondiale di sanità.
La comunità scientifica favorevole alla riduzione del danno, però, volle vederci chiaro. In particolare Rodu controllò meticolsamente i dati dai quali Bhatta e Glantz avevano tratto le loro conclusioni, scoprendo che la maggior parte dei 38 pazienti osservati per lo studio, aveva avuto l’infarto prima di iniziare a svapare. In media 10 anni prima. Finalmente, il 19 febbraio del 2020, la rivista ritirò il lavoro, giudicandone le conclusioni inaffidabili. Per arrivarci ci vollero otto mesi di continuo martellamento da parte degli scienziati e persino una lettera ufficiale alla direzione della rivista firmata da sedici personalità autorevoli della comunità scientifica. Ma gran parte del danno era ormai stato fatto.

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