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Perchè le istituzioni sanitarie rifiutano il confronto sulla riduzione del danno?

Al convegno dell'Iss nel No Tobacco Day la sigaretta elettronica era sul banco degli imputati. I punti di vista diversi non paiono graditi. Soprattutto quando le domande vengono fatte pubblicamente.

Dal convegno tenutosi il 31 maggio presso l’Istituto superiore di sanità siamo tornati a casa con almeno una certezza: al gotha delle politiche sanitarie del nostro Paese non piace il confronto. I suoi rappresentanti amano ritrovarsi fra amici, ripetere le loro teorie e farsi complimenti a vicenda, ma appena ci si permette di fare una osservazione o addirittura una domanda che disturba la loro narrazione, si viene accolti con atteggiamenti che vanno dal condiscendente allo sprezzante, fino ad arrivare all’ingiuria. Comprendiamo che il 31 maggio non fosse una giornata facile per chi aveva l’ingrato il compito di diffondere dei numeri, quelli del tasso dei fumatori nel nostro Paese, che fotografano una situazione di stallo decennale, sintomo del fallimento totale di tutte le strategie di prevenzione e di comunicazione messe in atto dalle istituzioni pubbliche da almeno dieci anni a questa parte. Difficile soprattutto perché in questi stessi giorni, Paesi come la Gran Bretagna e la Francia, che hanno adottato strategie molto diverse, celebrano riduzioni del numero dei fumatori da record.
Quale modo migliore, dunque, per uscire dall’imbarazzo che concentrarsi sui nuovi strumenti di riduzione del rischio che, brutalizzando all’estremo i concetti, non servono a smettere di fumare, allungano la dipendenza, corrompono i giovani e, di fatto, rappresentano solo un ampliamento dell’offerta dei prodotti del tabacco? Quasi troppa grazia per uno strumento i cui consumatori, sempre secondo i dati dell’Iss, sono in calo rispetto allo scorso anno, ridotti a un misero 900mila a fronte di quasi 12 milioni di fumatori. Ma tant’è. Qui nessuno ha i titoli per dubitare dei dati dell’Iss e dunque, quando si dice che l’80 per cento degli svapatori è anche fumatore (cioè utilizzatore duale), è senz’altro così. Ed è evidentemente un caso che fra le nostre conoscenze dirette vi sia una foltissima rappresentanza di quello sparuto 20 per cento di utilizzatori esclusivi.
Quando, però, in conclusione della sessione mattutina, è stato aperto il dibattito, qualcuno ha pensato che fosse lecito manifestare la propria opinione. Lo ha fatto una signora, esprimendo semplicemente rammarico per il trattamento riservato allo strumento che le ha consentito di liberarsi da una dipendenza da due pacchetti al giorno e raccontando di venire da una famiglia con una drammatica storia di tabagismo. La sua testimonianza è stata accolta con malcelata condiscendenza, inviti a rimandare questi interventi alla sessione pomeridiana (come se non si fosse parlato ampiamente di vaping anche durante quella mattutina) e con il sospetto insinuante: “Lei chi è, chi rappresenta?”.
Quando poi il professor Fabio Beatrice ha ritenuto di ricordare a un esimio collega, che aveva appena magnificato i risultati delle campagne antifumo britanniche e francesi, che Stoptober consigliava l’uso della sigaretta elettronica, il collega ha risposto che non lo sapeva, ma sicuramente il Mois sans tabac francese non lo faceva. Al ché uno di noi ha avuto l’ardire di intervenire, specificando che non solo Stoptober da due anni consiglia l’uso dell’ecig, ma anche la campagna francese lo fa dallo scorso novembre e che era molto facile riscontrarlo andando sul sito di Mois sans tabac. E ricordatevi di questo esimio collega del professor Beatrice, perché ne riparleremo più avanti.
In questo clima non proprio disteso si è aperto, appunto, il confronto sui nuovi strumenti. Abbiamo ascoltato molte cose interessanti, fra cui un riconoscimento quasi unanime del fatto che la sigaretta elettronica riduca il rischio da fumo, anche quello passivo, sebbene il relatore si dichiarasse comunque favorevole ad un divieto di svapo nei luoghi chiusi. Sì è sottolineato che l’uso duale non garantisce una riduzione del danno, si è suonato l’allarme sul pericolo epidemia giovani, riportando però i numeri degli Stati Uniti e sulla minaccia della diffusione della pod mod di Juul. Abbiamo anche sentito qualche affermazione insolita, come quella che le pod di Juul non contengono liquidi, ma “un solido”, ma non stiamo a guardare il capello. Mentre il professore Beatrice spiegava che, da clinico, piuttosto che abbandonare il paziente che non riesce o non vuole smettere di fumare, preferisce ricorrere agli strumenti di riduzione del danno, si sono elogiate le magnifiche sorti e progressive del Telefono verde antifumo, che ha ricevuto 60mila telefonate in 20 anni, cioè in media 3mila all’anno. Ma ne riceverebbe certamente molte di più se fosse apposto non solo sui pacchetti di sigarette, ma anche sulle confezioni di prodotti per il vaping, come suggerito.
E sebbene le telefonate non siano cessazioni, mai ci azzarderemmo a chiedere l’analisi dei costi e dei benefici di questo servizio, convinti che ogni vita salvata è un bene inestimabile. Per questo siamo rimasti un po’ interdetti quando un altro intervento, quello più ostile ai prodotti a rischio ridotto, ha minimizzato i risultati del recente studio di Peter Hajek, che dimostra come la sigaretta elettronica sia il più efficace fra gli strumenti per smettere di fumare, comprese le terapie riconosciute dai vari sistemi nazionali. Secondo il relatore, il 18 per cento di successi è una percentuale irrisoria “e comunque vicina a quella della vareniclina” (che è un farmaco). Abbiamo fatto due calcoli: in Italia ci sono 11milioni 600mila fumatori circa. Il 18 per cento di loro sono due milioni 88mila persone. Sono davvero così poche per chi si occupa di salvare le vite?
Ci è stato detto che molti di coloro che usano l’e-cig avrebbero smesso di fumare anche senza sigaretta elettronica, liberandosi anche dalla dipendenza di nicotina. Chi scrive ha tentato di smettere almeno una decina di volte, riuscendoci anche, ma solo per periodi più o meno brevi. Avrebbe smesso anche senza sigaretta elettronica? Forse sì, magari verso i 65 anni, quando avrebbe scoperto una malattia fumo-correlata e quando sarebbe stato ormai troppo tardi. Invece ha smesso a 40 e solo grazie alla sigaretta elettronica. Ma i casi individuali non contano per la scienza, come ci viene sempre ripetuto, e allora risulta difficile prendere sul serio uno studio presentato con i crismi dell’ufficialità e condotto su un campione di 34 persone.
Ma il clou della giornata è arrivato alla fine, quando qualcuno di noi ha osato rivolgere la domanda, un po’ provocatoria, se, a fronte degli insuccessi degli ultimi dieci anni, al Ministero della salute non venga mai in mente di fare un po’ di autocritica sulle politiche antifumo. Se sono davvero convinti di aver fatto tutto bene e che le colpe siano sempre da ricercarsi altrove. L’esimio collega del professor Beatrice di cui sopra ha preso con baldanza il microfono e ha risposto che voleva fare i complimenti all’industria del tabacco (cioè noi, secondo lui), perché eravamo morti dieci anni fa e ora siamo di nuovo in pista. Quando gli si è fatto notare che non eravamo l’industria del tabacco ma tutti ex fumatori, ha risposto con sprezzo: “Si vede, si vede. Lei ha proprio la faccia di nicotina”. Sinceramente è la prima volta che ci capita di sentire un medico che risponde ad una domanda dileggiando in maniera volgare una persona per il suo aspetto fisico e, che questo accada proprio nella massima istituzione di sanità pubblica, è perlomeno triste. Tanto che sono stati in molti, la direttrice dell’Osservatorio sulle dipendenze in primis, a ritenere di doversi scusare per l’accaduto.
Noi, che non rappresentiamo l’industria del tabacco, da parte nostra vorremmo dare qualche suggerimento a chi si occupa di politiche antifumo. Se non riuscite a comunicare, a farvi ascoltare e a raggiungere i vostri obiettivi forse è anche perché vi parlate addosso, rifiutate il confronto, siete pronti ad accusare chiunque non la pensi come voi di intelligenza con il nemico. Quello che è accaduto il 31 maggio ne è solo una sconfortante dimostrazione.

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